A processo per peculato, la capitana dei carabinieri e il giallo dell’abito da sposa

Nell’udienza si è parlato del vestito che fu acquistato in un noto atelier di Massa. Il matrimonio poi non venne celebrato, una vicenda che risale al 2013

MASSA. La giovane capitana dell’Arma dei carabinieri e il suo abito da sposa, lasciato in atelier, quando le nozze saltarono.

Un episodio privato e certamente doloroso da rivangare, ma che è diventato cruciale per la Procura nel processo contro Rosa Sciarrone, ex comandante dei Carabinieri della caserma di Massa, accusata di peculato, per essersi presumibilmente impossessata di gioielli e monili d’oro, oggetto di varie attività investigative e sequestri. Rosa Sciarrone non si è mai persa un’udienza, da quando è cominciato il processo che la vede alla sbarra degli imputati. I suoi ex colleghi, quelli che lavoravano nel suo reparto, quelli che avevano accesso al suo ufficio, quelli che compilavano i verbali, o che la sostituivano quando era in licenza, li vuole guardare negli occhi, ad uno ad uno. Si è sempre dichiarata innocente la Procura però è decisa a dimostrare che la Sciarrone avesse "problemi economici" o comunque le "mani bucate", condizione che l’avrebbe spinta a rubare e rivendere gioielli d’oro, e per questo il pubblico ministero Marco Mansi ha chiamato a testimoniare la titolare di un noto atelier di abiti da sposa di Massa, a cui la Sciarrone si era rivolta in vista delle sue nozze. In aula la donna ricorda tutta la vicenda: era l’estate del 2013, il matrimonio avrebbe dovuto svolgersi a settembre e l’allora comandante dell’Arma, tra maggio e giugno, aveva già provato due volte il suo abito e pagato un acconto di 1.700 euro, su un totale di 2. 500, che però includeva anche trucco, estetista e acconciatura.

Quando ad agosto la titolare del negozio sentì le voci dell’annullamento del matrimonio - così racconta davanti al giudice Ermanno De Mattia - si mise in contatto con la sua cliente, chiedendole di saldare comunque il vestito e proponendole un accordo: uno sconto sulla cifra mancante, per poter conservare l’abito in atelier e cercare di rivenderlo. Secondo la donna l’ex comandante avrebbe dovuto firmare una scrittura privata in negozio, cosa che però non ha mai fatto. Secondo la difesa invece la Sciarrone non ebbe mai più notizie della titolare dell’atelier, a cui lasciò un vestito nuovo e già pagato totalmente, visto che la cifra mancante riguardava esclusivamente servizi di cui non avrebbe più usufruito. Hanno sfilato ieri mattina anche alcuni titolari di negozi Compro oro, da cui la Sciarrone aveva portato a vendere numerosi gioielli di sua proprietà: tra questi, però, nessuno ha riconosciuto i monili d’oro mancanti dalla cassaforte dell’Arma. «Si presentava con regolare documento di identità - dicono in aula - e ha venduto gemelli, orecchini, collane, bracciali e anelli per un totale di 1. 290 euro. Fotografiamo tutti i pezzi e non abbiamo riconosciuto quelli mostratici in foto dalla guardia di finanza».

C’è stato tempo anche per la testimonianza di Pietro Pucci, il cittadino massese a cui i carabinieri sequestrarono in casa, durante un’operazione, una ingente somma di denaro contante, fucili e 300 gioielli: «Quando capirono che ero innocente- ha raccontato - mi chiamarono in caserma per riprendermi il denaro e i gioielli, ma mancavano nove pezzi d’oro, per un valore di circa 10mila euro». L’uomo è già stato risarcito dallo Stato per 9. 500 euro. I gioielli mancanti, spariti dalla cassaforte dell’Arma, non sono mai stati ritrovati.

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