Uccisa a 19 anni, lo sfogo della mamma: «Pagai il funerale col primo stipendio di mia figlia. Abbandonata dallo Stato»
Castagneto Carducci: l’accusa della mamma della ragazza assassinata nel 2013 da un senegalese irregolare
Il primo stipendio di Ilaria Leone lo riscuote la sua mamma, Sara. Ilaria non fa in tempo. Aveva iniziato a lavorare da poco in un ristorante pizzeria di Castagneto Carducci. È stata picchiata, violentata, lasciata a morire soffocata nel proprio sangue, in un uliveto, il 1° maggio 2013. Sara Cariano ha usato i soldi del primo lavoro di Ilaria per il suo funerale.
Dura da accettare una faccenda del genere. «Dura dura», voce sfregata contro la cartavetra per non piangere. «Sono un’invalida», dice di sé. Come tutte le mamme alle quali è stata ammazzata una figlia. «Mi manca un braccio, una gamba. Mi manca sempre qualcosa». Il dolore no. Quello c’è sempre. «Sono come una vittima di mafia: le famiglie che perdono una figlia in un femminicidio sono come le vittime di mafia. Solo che lo Stato non ci riconosce gli stessi diritti».
Sono le parole che a un incontro sulla violenza di genere Sara pronuncia mercoledì sera a Sovigliana (Vinci), di fronte alla senatrice Valeria Valente, presidente della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Con la semplicità di chi ha sperimentato il dolore senza ritorno Sara dice: «Lo Stato abbandona i familiari delle vittime». Le vittime dei femminicidi valgono, in termini di indennizzi, un quarto delle vittime di mafia, terrorismo e altri reati “speciali”.
Sara, perché accusa lo Stato di abbandonare i familiari delle vittime?
«Perché quando si spengono i riflettori sul tuo caso e chiedi aiuto non c’è più nessuno».
Quando è morta sua figlia di quale sostegno avrebbe avuto bisogno?
«Quando è morta Ilaria mi sono trovata sola con il mio dolore e in grave difficoltà anche economica. Ilaria è stata assassinata da Ablaye Ndoye (un senegalese, condannato all’ergastolo, ndr) e per due mesi io sono stata incapace di andare a lavorare. Mi sono ripresentata a luglio e ho finito la stagione nel ristorante dove lavoravo da 30 anni perché avevo un contratto da rispettare, ma sono consapevole di non aver lavorato bene. Alla fine della stagione non sono stata riconfermata. Non sapevo cosa fare: avevo un altro figlio al quale garantire anche assistenza psicologica. Ma l’assistenza psicologica a noi non era garantita dallo Stato (a differenza dei familiari delle vittime di mafia e terrorismo, ndr).
Che cosa ha fatto?
«Sono stata costretta a emigrare alle Canarie per lavorare. Ma non mi trovavo bene: io là, il mio cuore qua, con Ilaria. E sono tornata. Poi ho iniziato le supplenze a scuola, fino a ottenere un posto di ruolo a Empoli, grazie a un concorso».
Detta così sembra che le cose si siano sistemate. Perché allora, si è sentita abbandonata dallo Stato?
«Perché lo Stato non ha impedito che mia figlia venisse uccisa. Perché lo Stato non mi ha permesso di ottenere l’indennizzo per la morte di mia figlia, perché lo Stato non mi mette in condizione di ottenere una giustizia piena: a noi familiari delle vittime di femminicidio garantisce il gratuito patrocinio per il processo penale, ma ci lascia soli per il processo civile».
Lo Stato non ha impedito che sua figlia venisse uccisa: perché?
«Ablaye era destinatario di tre decreti di espulsione perché era un violento: spacciava, bruciava motorini, aveva aggredito una persona con un’ascia. Non lo avevano mai espulso. Non lo avevano neppure allontanato dalla nostra zona: se lo avessero mandato via, Ilaria sarebbe ancora viva probabilmente».
Ha chiesto perché non fosse stato espulso?
«A quanto hanno ricostruito i miei avvocati perché come molti extracomunitari dell’epoca, sottoposti a fermo di identificazione, veniva rilasciato per mancanza di posti disponibili nei Cie, i centri di identificazione ed espulsione, dislocati nelle altre regioni (in Toscana non ce n’erano)».
Ma non ha mai pensato di intentare una causa contro lo Stato per non aver “protetto” sua figlia e non aver impedito la sua morte? È uno dei doveri della Convenzione di Istanbul-
«Certo, ma non avevo le risorse per affrontarla. E le istituzioni si sono dileguate».
Quindi non ha ottenuto neppure l’indennizzoper la morte di Ilaria?
«No. In sede penale, l’assassino è stato condannato al risarcimento: mi pare 100mila o 150mila euro a me, 100mila euro a mio figlio. Ma risultava nullatenente, quindi non potevamo prendergli nulla».
Però, c’è una legge che prevede un indennizzo “sostitutivo” da parte dello Stato, in questi casi.
«Avrei dovuto avviare una procedura: mancavano i soldi. E in quel momento, l’indennizzo per noi familiari era di 7.200 euro. I miei avvocati mi dissero che sarebbero state più le spese che il risultato. Inoltre non avrei potuto presentare domanda: problemi di reddito».
Troppo ricca?
«Aver riscosso lo stipendio di Ilaria, quello con cui le ho pagato il funerale, mi aveva fatto superare il tetto degli 11mila e rotti euro che era stato messo per accedere all’indennizzo (e che è stato poi tolto, ndr). Ora l’indennizzo è a 60mila euro (grazie a una campagna de Il Tirreno, università di Pisa e Scuola Sant’Anna) ma non sono più in tempo a presentare domanda».
L’assassino di sua figlia è ancora in carcere?
«Credo di sì e spero che non gli diano mai uno sconto di pena».
Ma lei ha mai avuto modo di parlargli?
«No. Avrei voluto incontrarlo per guardarlo in faccia e domandargli...».
Domandargli cosa?
«Quali sono stati gli ultimi attimi di mia figlia. Le sue ultime parole. Vorrei sapere se mi ha mi ha nominato mentre lui la massacrava. Nella testa mi rigira la sua voce che mi chiama, “Mamma, mamma”, come se mia figlia mi avesse chiesto aiuto e io non avessi potuto darglielo. Questo è il mio più grande dolore. Vorrei chiedere a quell’assassino: “Cosa è successo quella notte? Perché?».
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