L'"economia blu" è il futuro di Livorno, ma ora ha il motore in affanno
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È ancora il cuore del sistema della città, però ha perso colpi
LIVORNO. Non c’è nessun’altra provincia fra gli oltre cento campanili made in Italy che abbia un così esteso interfaccia terra-mare: 334 chilometri di coste a fronte poco più di un migliaio di chilometri quadrati di territorio, praticamente una strisciolina di Toscana che si allunga fra lo Scolmatore e Riotorto. Non c’è nessun altra provincia che abbia due porti di rilevanza nazionale all’interno dei propri confini: tali da essere fra i primi cinque porti nel traffico container e più o meno lì nelle crociere, al primo posto nelle “autostrade del mare”, nelle auto nuove e nei forestali, in tandem fra Livorno e Piombino il primo sistema portuale anche per il traffico dei turisti, eccezion fatta forse per lo Stretto di Messina (ma comunque a un passo dai dieci milioni di passeggeri). Aggiungiamo: il più grande cantiere al mondo nel settore degli ultrayacht, la provincia fra le prime dieci per numero di presenze turistiche.
Non desterà dunque meraviglia se la provincia di Livorno è fra le primissime a livello nazionale per peso specifico dell’ “economia blu” sul resto dell’apparato produttivo. Anche se, a dar retta all'ultimo report nazionale di Unioncamere, qualche colpo lo stiamo perdendo. Proprio nel cuore del sistema produttivo: quello che si raggruppa, nel segno dell'economia blu, attorno al mare, e cioè portualità e trasporti marittimi, turismo in riva alle acque e pesca, cantieristica e itticoltura, attività ricreative e ricerca in ambiente marino...
Una certa qual conferma la ritroviamo anche nell'indagine che il centro studi della Camera di commercio ha appena pubblicato. A partire da un tris di elementi-chiave che raccontano una storia abbastanza chiara, soprattutto se facciamo il confronto con un analogo report di un paio di anni fa. Uno, le imprese: nella nostra provincia quelle legate all'economia del mare sono arrivate a un niente da quota 4.200, il 2,6% in più rispetto a 24 mesi prima. Peccato che nel frattempo l'incremento del loro numero sia stato ben più rilevante sia nel resto della Toscana (più 3,8%) che soprattutto su scala nazionale (più 4,7%). Due, il valore aggiunto, vale a dire la ricchezza prodotta: nella nostra provincia si arriva a 993,8 milioni di euro nell'ultimo dossier Cciaa da 985 milioni che erano (più 0,9%), che è un po' meglio del dato regionale (più 0,6%) ma è la metà dello standard nazionale (più 1,7%).
È però il terzo tassello del mosaico a dirci che qualcosa non quadra: sia in campo regionale che a livello nazionale si rileva un piccolo miglioramento nel numero di occupati (quasi un punto percentuale in ambo i casi) ma, ed è qui che casca l'asino, al contrario in provincia di Livorno si nota un arretramento, piccolo ma comunque con segno negativo (meno 0,13%).
Gli effetti dell’emergenza Covid sono difficili da calcolare: da un lato, perché il dossier più recente tiene conto solo del primo anno della pandemia); dall’altro, perché anche nei mesi del lockdown più duro nelle nostre zone quasi la metà delle imprese sono rimaste aperte e poco meno dei due terzi dei lavoratori hanno continuato a prestare servizio, pur con tutte le difficoltà del caso. Non solo: sui traffici portuali gli effetti hanno avuto contraccolpi imprevedibili, non semplicemente catalogabili come crisi. Dunque: solo fra qualche anno si potrà capire la portata della mazzata causata dal Covid e quali strascichi ha lasciato, un po’ come nel corpo di chi l’ha avuto.
Fatto sta che il valore aggiunto dell’ “economia blu” in provincia di Livorno è cresciuto sì – da 976 a quasi 994 milioni di euro – ma la fetta si è rimpicciolita parecchio nel complesso della “torta” della ricchezza prodotta dall’economia locale. In cifre: nell’ultimo quinquennio “fotografato” da Uniocamere ha lasciato per strada qualche briciola nei primi tre anni, poi ha avuto una batosta negli ultimi due (due punti e mezzo in meno). Idem per il numero dei posti di lavoro rispetto al totale dell’economia con “targa” livornese: dal 13,6% del dossier 2017 si tira il freno fino al 13,3% di tre anni più tardi mentre invece nell’ultimo report ecco giù al 12%.
C’è però un elemento che porta una nota di ottimismo: l’analisi curata dal centro studi della Camera di commercio per mano di Raffaella Antonini e Mauro Schiano segnala puntualizza che, in provincia di Livorno, nell’ultimo anno analizzato il margine operativo lordo – indicatore chiave dello stato di salute delle imprese – cresce dal 10,3% al 10,9%. Un balzo a metà (in provincia di Grosseto si passa dal 9,8% all’11,9%): a frenarlo sono le attività connesse al porto, che lo vedono scendere bruscamente dall’11,1% all’8,9%. Ad eccezione dell’attività ittica, il resto mostra dati positivi o perfino ottimi in un’annata di pandemia choc: nella cantieristica si raddoppia dal 5,5% all’11,2%, lo stesso dicasi nelle attività ricreativo-sportive (dal 9,6% al 18,7%), nel turismo marino (fra hotel, ristoranti e locali) si schizza dal 16,5% al 21,5%.
«Da più parti si guarda al mare come punto di partenza per il rilancio: abbiamo infatti visto con chiarezza quanto sia potente la sua forza propulsiva all’interno dell’economia italiana ed ancor più nelle province di Livorno e Grosseto»: parte da qui l’ultima sottolineatura del dossier elaborato dall’ente camerale. Lo fa guardando ai fondi in arrivo dal Recovery (Pnrr), e anche qui spendendo un po’ di speranza: nel Paese c’è «piena consapevolezza», visto che «al “mare” è stato dedicato un capitolo specifico» del piano e che il mare è «una risorsa naturale che offre grandi opportunità anche per la transizione ecologica».
Ma c’è un “ma”, anzi un paio.
L’uno riguarda l’ “inverno demografico”, cioè la mancanza di classi di età giovanili, che sta investendo anche l’ “economia blu”: la speranza sta nel «rientro in patria dei 600mila italiani emigrati (per lo più laureati tra i 26 e i 35 anni) con le loro famiglie». A tal riguardo si cita una ricerca dell’associazione Che-Europa che mostra nei “millenials” «con alto grado di istruzione e una certa nostalgia per l’Italia», una certa voglia di tornare.
L’altro ha a che vedere con la qualificazione delle professionalità: il dossier Cciaa dice che il 18,9% delle figure è di difficile reperimento, mugugnano le imprese (che però non sembrano granché disposte ad allargare i cordoni della borsa per arrivare a buste paga più alte ma anche che una eventuale disponibilità non ha effetti risolutivi). E qui i ricercatori aprono la porta al problema della formazione per «potenziare il motore dell’economia del mare». Ma qui si apre un altro capitolo, anzi forse una enciclopedia intera. Tutta da scrivere.l
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