Attacco alle Torri Gemelle: dopo anni di rinvii, inizia il processo alla mente della strage
Frank Pellegrino, l'ex agente speciale dell'Fbi che indagava su di lui dal 1993: «Abbiamo perso un’occasione»
A vent’anni di distanza e dopo incalcolabili rinvii, riprende questa settimana nella base Usa di Guantanama il processo ai cinque detenuti accusati degli attacchi dell’11 settembre 2001. Tra questi, anche Khalid Sheikh Mohammed, ex capo della propaganda di Al-Qaida, che aveva confessato di essere la mente dietro l’operazione terroristica. A 18 anni dalla sua cattura in Pakistan e a 13 dall’incriminazione, il procedimento non ha ancora visto la luce.
Si tratta del processo americano più contestato e controverso, dati i clamorosi ritardi e le numerose denunce dei gruppi per i diritti umani – da Amnesty International a Human Rights Watch – e dei legali dell’esercito Usa, che accusano che la commissione militare, creata col pretesto della extra territorialità della base, non sia imparziale. La richiesta è che questo si tenga in una corte federale, con gli imputati trattati come sospetti criminali, o in una corte marziale, sulla base della Convenzione di Ginevra che vieta di tenere processi civili per i prigionieri di guerra.
Dall’altro lato, David Nevin, uno dei legali degli imputati, denuncia che le udienze previste per i prossimi giorni siano state programmate con l’obiettivo di risollevare l’immagine del governo in vista del 20esimo anniversario dell'11/9.
Sulle teste dei detenuti pende una condanna a morte, ma la pena è stata ulteriormente ritardata nel 2019, quando il principale imputato aveva promesso di aiutare le famiglie delle vittime nella loro causa contro l'Arabia Saudita e la presunta complicità di Riad in cambio dell’ergastolo. Così il 30 agosto del 2019 un giudice militare aveva ufficialmente fissato la data di inizio all’11 gennaio 2021, slittata poi causa Covid e per l’abbandono del caso da parte di due giudici. A susseguirsi nel corso degli anni sono stati all’incirca otto-nove giudici, ricorda la difesa, e ogni nuovo arrivato deve familiarizzare con circa 35 mila pagine di trascrizioni di precedenti udienze e migliaia di mozioni.
Grava ulteriormente sul procedimento, inoltre, l’accusa di torture ai danni dei detenuti nelle prigioni segrete della Cia, che rischia di minare l'attendibilità delle confessioni e la loro ammissibilità tra le prove – come aveva già affermato la stessa corte suprema nel 2008 – o, secondo le parole della difesa, di essere usata per appelli che potrebbero trascinare ancora l'iter giudiziario.
Il malumore nei confronti del governo e gli interrogativi sulla vicenda vengono progressivamente esasperati con il dilungarsi delle vicende processuali. In un’intervista alla Bbc, Frank Pellegrino, l'ex agente speciale dell'Fbi che ha inseguito Khalid Sheikh Mohammed per quasi 30 anni, continua a chiedersi se l'intelligence americana avrebbe potuto arrestarlo anni prima degli attacchi. Quasi dieci anni prima, infatti, Pellegrino aveva trovato il suo nome indagando sulle bombe del 1993 al Word Trade Center e sul piano per far esplodere diversi aerei sul Pacifico nel 1995. A metà degli anni '90 fu ad un passo dall'arrestarlo in Qatar, ma fu bloccato dalle resistenze dei diplomatici Usa sul posto, che temevano di compromettere le relazioni con Doha. Alla fine l'ambasciatore americano lo informò che le autorità locali non sapevano più dove si trovasse. Iniziate le indagine sugli attentati dell’11 settembre, fu identificato da una figura chiave di Al-Quaida tenuta sotto custodia, dando ragione all’intuizione di Pellegrino. «Quando scoprimmo che era lui il nostro uomo, non ci fu nessuno più avvilito di me. Fu un'occasione persa», ammette, ma precisando che in quegli anni Khalid Sheikh Mohammed non era visto come un target ad alta priorità. Tanto che non riuscì a farlo inserire neppure nella lista delle dieci persone più ricercate d'America: «Mi avevano detto che c’erano già troppo terroristi».