Caccia ai dossier perduti dei Savoia
La storia vista dalla prospettiva dei Savoia resta un «buco nero». Le carte che potrebbero raccontare una loro verità sono «scomparse». Murati in una nicchia del Quirinale ci sono ancora documenti nascosti, nella notte dell’8 settembre 1943, prima che la famiglia reale lasciasse Roma per scappare a Brindisi? Dove sono finiti i 129 dossier catalogati a Cascais, nella città portoghese dell’esilio, alla morte di Umberto II, che avrebbero dovuto essere consegnati all’Archivio di Stato? E da qualche parte esiste una copia del memoriale che Vittorio Emanuele III scrisse per offrire una sua versione del tempo del fascismo e sulla tragedia della guerra? Chi ha avuto l’opportunità di consultare - pur sommariamente - quei fascicoli, assicura che si tratta di un carteggio capace - addirittura - di rimettere in discussione giudizi, convincimenti e opinioni. Lo ipotizza Antonio Parisi nel libro La saga di Casa Savoia (edizione Diarkos, 378 pagine, 18 euro) dove racconta «le storie, i retroscena, gli intrighi e le passioni» di una casata che affonda le radici ai tempi di Carlo Magno.
L’autore - per essere stato il segretario nazionale dei giovani monarchici - ha conoscenza diretta delle fonti che cita e, in qualche caso, degli avvenimenti: è testimone diretto. Una parte dell’archivio sabaudo venne nascosta quando Vittorio Emanuele III con un seguito sterminato di generali, attendenti, portaborse e lacché di corte decise di abbandonare la capitale per non essere imprigionato dai tedeschi. Detronizzato il duce, il 25 luglio 1943, e nominato Pietro Badoglio capo del governo, la politica italiana virò di 180 gradi accordandosi con gli americani che, da nemici, diventarono amici e troncando l’alleanza con i tedeschi che, da amici, entrarono nei ranghi dei nemici. Un cambio di fronte che, più che precipitoso, apparve improvvisato. Più attenti a salvare la propria pelle che preoccupati di proteggere gli italiani. Che, infatti, vennero abbandonati nel vortice della guerra civile dove la ferocia non conobbe né cautela né intercessione. Per certi versi, si trovarono presi alla sprovvista gli stessi protagonisti di questa giravolta al punto da decidere - un’ora per l’altra - di andarsene da Roma. Vittorio Emanuele III si preoccupò di alcune carte d’archivio. Troppo ingombranti per portarsele dietro ma utili in prospettiva: dette disposizione di nasconderle in una nicchia del muro (o in un’intercapedine del pavimento). L’amministrazione d’impronta piemontese era puntigliosa - persino un po’ pedante e taccagna - al punto da registrare quanti caffè venivano serviti alle riunioni ufficiali. Per nascondere i faldoni di documenti - nero su bianco, a verbale - servirono 16 mattoni.
Quelle carte sono ancora al Quirinale negli spazi diventati - nel frattempo - repubblicani? Un archivio - assai più corposo - arrivò proprio a Cascais, dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele III (che si ritirò ad Alessandria d’Egitto) e quando Umberto II lasciò l’Italia perché gli italiani non ne volevano più sapere della monarchia. Una palazzina ribattezzata Villa Italia divenne la residenza dell’ex sovrano. Il primo piano ospitava lo studio privato di Umberto II dal quale era possibile accedere alla sua camera da letto. La libreria nascondeva l’ingresso di un altro locale. Azionando delle leve, lo scaffale ruotava su se stesso e si apriva come una porta. Protette dai libri erano custodite le documentazioni della dinastia. Segreti di carta. Per la storia, il fascicolo più interessante sarebbe stato quello con il messaggio del presidente della Repubblica francese Albert Lebrun il quale invitava l’Italia a entrare in guerra. Proposta a tutta prima paradossale. In realtà, lo scopo sarebbe stato quello di far acquisire a Roma il diritto di partecipare alle trattative per «moderare» le pretese dei nazisti, impedendo che fossero i soli a dettare le condizioni e, quindi, di fatto, per aiutare - sottobanco - la Francia.
Per improbabile che possa sembrare, una conferma verrebbe dagli archivi statunitensi che conservano un telegramma del 29 agosto 1939: mesi prima della dichiarazione di guerra italiana alla Francia. In quell’occasione, Benito Mussolini assicurò a Vittorio Emanuele III che «le iniziative dell’esercito si sarebbero limitate a un atteggiamento puramente dimostrativo». I francesi e gli inglesi avevano fatto sapere «di fare altrettanto». Come se si preparasse una guerra per finta. Il colonnello Francesco Scoppola, al tempo aiutante di campo del re in esilio, a più riprese, assicurò di avere visto e letto il messaggio. Che, comunque, adesso, non si trova. E, per la verità, parrebbe scomparsa la maggior parte della documentazione che riguarda il XX secolo.
Alla morte del re in esilio, il 18 marzo 1983, un gruppo di saggi s’impegnò per censire tutta quella documentazione. Ci lavorarono il direttore del museo del Risorgimento di Roma Emilia Morelli, il vice direttore degli archivi del ministero dei Beni Culturali Vincenzo Gallinari, il marchese Niccolò di Suni, Luigi Sella (discendente dello storico ministro della Finanze), Aimone di Seyssel e il conte Fausto Solaro del Borgo. La catalogazione - dividendo per argomenti e per epoche temporali - si concluse con la definizione di 217 dossier che riempirono 16 bauli. All’archivio di Stato ne arrivarono 88. Gli altri andarono «persi» per strada. E mancano le memorie che Vittorio Emanuele III scrisse per correggere l’immagine che andava consolidandosi di un re che, prima di abdicare al ruolo, aveva abdicato alle sue responsabilità. Già a Brindisi cominciò a ripercorrere gli avvenimenti di cui era stato protagonista, evidenziando giustificazioni, chiarimenti, spiegazioni e scusanti. Il lavoro lo completò quando già stava ad Alessandria d’Egitto. Scrisse in corsivo su fogli protocolli che - Vittorio Aquarzanti a dettare e Gaetano Salici alla macchina per scrivere - diventarono 675 fogli, prodotti in cinque copie.
Che un resoconto così esteso non potesse contenere soltanto banalità è del tutto evidente. Fra coloro che ebbero l’opportunità di sfogliarne qualche pagina, il giudizio più incoraggiante venne da Alberto Bergamini, deputato e direttore del Giornale d’Italia. «Questo diario» assicurò, «è importante perché rettifica chiarisce e illumina. Varie cose male conosciute (o sconosciute del tutto) vengono messe al loro posto». La regina Elena, alla morte del marito Vittorio Emanuele III, incaricò l’avvocato Giovanni Andrea Serrao perché contattasse una casa editrice interessata alla pubblicazione. Sarebbero stati scelti gli americani della Duell, Sloan&Pearce, ma al momento di andare in stampa Umberto II implorò di impedirlo. «Con quel testo» la giustificazione, «finirei rovinato». Di che cosa avrebbe dovuto avere paura un ex re che, ormai, viveva in esilio in Portogallo? Senza incarichi e senza responsabilità dirette? Circolavano storie «scomode» sulla sua omosessualità.
Umberto II aveva scritto poesie d’amore indirizzandole a un marinaio tedesco di stanza a Napoli e c’erano tracce di lettera ambigue spedite a un tenente dei bersaglieri dei quali l’allora principe si sarebbe invaghito. Ma il padre poteva mai dare voce e approfondire quegli argomenti? L’ex re, isolato in terra portoghese, doveva preoccuparsi di qualche giudizio severo riferito a liberali o democristiani? Al ministro Carlo Sforza piuttosto che al presidente del consiglio Alcide De Gasperi? L’ultimo segno esplicito di questi documenti - scomparsi con l’andamento di una spy story - si colloca nelle settimane immediatamente successive alla scomparsa di Umberto II. Dopo i funerali Gaetano Scalici avvicinò Maria Luigia Calvi di Bergolo, nipote dell’ex re, e le consegnò due copie del testo del bisnonno Vittorio Emanuele III. Lei - secondo il racconto registrato dallo scrittore Renato Barneschi - rientrò a Roma in vagone letto e, conscia di custodire documenti preziosi, protesse quei fogli, tenendoli sotto il cuscino.