L'Occidente si svegli, prima che sia troppo tardi
Potremmo chiamarla la “sindrome di Sartre”: il filosofo francese, guru della sinistra radicale, che, negli anni ’70 vedeva nell’ayatollah Ruhollah Khomeini una forza progressiva della Storia. Una tesi già all’epoca evidentemente assurda, ma che poggiava su un caposaldo ben preciso: la sbandierata lotta all’imperialismo americano, che poi altro non era se non odio viscerale per l’Occidente e i suoi valori, nel nome di un terzomondismo idealizzato.
Ebbene, sono trascorsi quarantacinque anni dalla rivoluzione iraniana. Un arco di tempo più che sufficiente per essersi resi conto di che cosa concretamente è il khomeinismo e il regime che è stato capace di produrre: una dittatura teocratica, pronta a eliminare i dissidenti e a foraggiare organizzazioni terroristiche utili a destabilizzare lo scacchiere mediorientale. Eppure la “sindrome di Sartre” è più viva che mai. E non si ferma di certo all’Iran. In Italia, baffuti ex premier di sinistra e “garanti” di ex partiti di maggioranza elogiano la Repubblica popolare cinese. Sempre in Italia, non mancano parlamentari di area progressista, gravitanti attorno a via del Nazareno, che considerano come modello un presidente brasiliano, Lula da Silva, che ha significativi legami con Pechino e secondo cui, in fin dei conti, se l’Ucraina è stata invasa dalla Russia, un po’ se l’è andata a cercare. Per non parlare di quei giornalisti che vedono in Hezbollah un ente caritatevole. Gli esempi sono, insomma, numerosi. E allora c’è da chiedersi: com’è possibile?
Ecco, è proprio a questa domanda che cerca di rispondere il nuovo libro di Daniele Capezzone, Occidente: noi e loro (Edizioni Piemme): una vasta e articolata analisi che si interroga sul perché di questa autoflagellazione continua, attuata da politici e intellettuali, che, criticando costantemente i valori occidentali, arrivano di fatto a difendere, volenti o nolenti, gli interessi delle peggiori autocrazie. Le cause individuate dall’autore sono molteplici e strutturali, andando ben al di là della superficie ideologica (e un po’ ipocrita) del terzomondismo.
Innanzitutto, emerge un nodo di carattere geopolitico. L’Occidente, argomenta Capezzone, sembra sempre più convinto che ogni problema possa essere appianato alla buona, con una pacca sulle spalle, neutralizzando (se non addirittura censurando) la categoria di nemico. “Siamo convinti di avere davanti un orizzonte temporale indefinito per gestire, appianare, smussare. Abbiamo rimosso dalla nostra mente l’idea che il nemico esista e voglia batterci o faci male”, scrive l’autore. Un approccio evidentemente ingenuo, che si balocca con l’idea del progresso infinito, mostrando incomprensione (se non vero e proprio fastidio) nei confronti della complessità delle dinamiche storiche.
Ma attenzione. La soluzione a questo problema non risiede, come potrebbe a prima vista sembrare, nell’uso facile e scriteriato della forza. Capezzone su questo è chiaro: la possibilità di un ricorso alla forza esiste, ovviamente. Ma è a Ronald Reagan che bisogna soprattutto tornare, al principio che fu l’architrave della sua politica estera: peace through strength, ovvero l’impiego della deterrenza. “Di che si tratta? Semplice: di disporre di un apparato difensivo clamorosamente, evidentemente e visibilmente più forte, che di per sé scoraggi in ogni teatro i cattivi del mondo. Si tratta di avere le armi proprio per non dover fare la guerra”, chiarisce l’autore. D’altronde, le principali crisi in corso sullo scacchiere internazionale, dall’Ucraina al Medio Oriente, sono (anche) il risultato di una deterrenza americana che Joe Biden ha fondamentalmente azzoppato sia a seguito della caduta di Kabul sia per il suo pericoloso appeasement nei confronti dell’Iran. Il problema, scrive Capezzone, è che la situazione si è oggi ribaltata: sono infatti le autocrazie a usare la deterrenza contro di noi. O le leadership politiche occidentali lo capiscono in fretta o si rischia di perdere del tempo prezioso.
Ma questo volume offre anche un ulteriore spunto assai interessante. Capezzone non si limita a un semplicistico manicheismo, ma si interroga criticamente sul perché, nelle società occidentali, stia crescendo il malcontento verso i sistemi democratici. Con grande onestà intellettuale, l’autore non si accontenta di derubricare il tutto a disinformazione straniera, ma passa in rassegna anche gli autogol di un certo establishment occidentale, spesso pronto a ignorare la volontà popolare, a demonizzare chi chiede cambiamenti e addirittura a violare i principi liberali fondamentali. Una linea, questa, che alimenta il malcontento del popolo davanti a delle élite, che squalificano a loro volta ogni critica, bollandola fallacemente come un attentato alla democrazia stessa. “Dove sta scritto che, se uno difende le nostre democrazie, con ciò debba tenersi tutto il pacchetto preconfezionato, e quindi possa essere arruolato d’imperio a favore di tecnocrati, politici d’establishment, volponi o uccellacci rapaci delle vecchie élite, e così via?”, si chiede Capezzone. E infatti sono proprio le soluzioni tecnocratiche, così diffuse in Occidente negli ultimi 15 anni, che hanno creato la maggiore disaffezione e rafforzato indirettamente la capacità attrattiva delle autocrazie. Con il risultato paradossale che, assai spesso, sono proprio i (presunti) paladini della democrazia a fornire i migliori assist alle dittature.
È alla luce di questi pericoli e di queste contraddizioni che il libro di Capezzone può essere letto come un campanello d’allarme contro la recrudescenza della "sindrome di Sartre". Tra elogi alla Cina e virulenti rigurgiti antisemiti, l’Occidente sta ormai sempre più perdendo la propria bussola. O la sua classe dirigente lo comprende alla svelta. Oppure ci attenderanno tempi bui. Ancora più bui di quelli che stiamo già vivendo oggi.