Smartworking: l'entusiasmo smarrito nelle riunioni in ciabatte
Anche in Italia molte aziende (una delle prime è stata la Panini di Modena) hanno già deciso di ridurre drasticamente lo smart working. Altre ci stanno pensando. La canadese Shopify ha detto basta alle riunioni online con più di due persone, Dropbox e Meta hanno ridotto il giorno delle riunioni via web. E persino Zoom, che è una delle società diventate simbolo del lavoro a distanza, come ha raccontato Irene Maria Scalise su Repubblica, «ha chiesto al suo personale di tornare in ufficio ponendo fine alla tortura del collegamento online».
I dati sono impietosi: l’utente medio delle piattaforme digitali ha registrato, dal febbraio 2020, un aumento del 252 per cento del tempo dedicato alle riunioni settimanali. E il 72 per cento degli incontri si è rivelato inefficace. Anche perché, diciamoci la verità, quanti di coloro che partecipano virtualmente a una riunione su Zoom o Teams segue davvero ciò che succede durante le sessione? E quanti, invece, si fanno beatamente i fatti loro? Spinte dalla necessità, durante la pandemia, le imprese si sono illuse di riuscire con lo smart working a ridurre i costi e a mantenere la produttività alta. Pia illusione: è vero che se meno persone vanno in ufficio si possono risparmiare un po’ delle spese per gli uffici e la loro pulizia, ed è vero anche che potendo assumere una persona in qualsiasi parte del Paese, senza necessità di trasferirlo nella sede principale, si possono: a) scegliere persone migliori e b) proporre stipendi più bassi (o meglio: ancora più bassi). Ma è altrettanto vero che, a lungo andare il lavoro a distanza rischia di inaridire la creatività, l’entusiasmo e quello spirito di corpo che sono la base di ogni buona iniziativa imprenditoriale.
Ed è altrettanto evidente che lo smart working spesso si trasforma in una sequenza di sterili riunioni, trascinate all’infinito solo per far passare il tempo e far finta di lavorare, mentre si guarda la serie preferita sul tablet. Dal canto loro i lavoratori, ovviamente, fin dall’inizio si sono buttati nello smart working a capofitto. E adesso faticano a rinunciare. Dalla Tim alle banche, fino alla stessa Panini, sono in corso trattative serrate da parte delle rappresentanze sindacali: vorrete mica davvero farci rientrare in ufficio? Raccolte di firme, incontri e scontri, e proteste a non finire: nessuno è disposto a tornare alla schiscetta o al pranzo in mensa, dopo l’overdose di domestiche paste al ragù. Nessuno è felice di mettersi di nuovo nell’inferno della tangenziale dopo aver sperimentato, come massimo dello spostamento mattutino, quello dal letto al sofà. Una ricerca di Adecco dice che oltre un terzo delle persone che cercano lavoro (il 36,7 per cento esattamente) è disposto a rinunciare al posto a causa di «aspettative disattese». E la principale di tali aspettative è proprio quella di non poter lavorare dal tinello di mammà.
Comprensibile, si capisce. Come dice sempre la mia anziana mamma: a star bene ci si abitua in fretta, è a tornare indietro che si fa fatica. E tornare indietro totalmente dallo smart working appare impossibile: un po’ perché ormai siamo tutti viziati, un po’ perché ci sono alcuni innegabili vantaggi cui è difficile rinunciare. Ma sono sicuri i lavoratori che si oppongono al «contrordine compagni», sono sicuri che lavorare in pigiama e ciabatte sia davvero il meglio per loro? Per la loro vivacità intellettuale? Per il loro benessere psicofisico? Sono sicuri che la comodità del divano non rattrappisca, oltre che i loro muscoli, anche le loro capacità? E il loro entusiasmo? Non sentono di aver bisogno di stimoli, incontri, condivisioni, foss’anche litigi e battibecchi con qualcuno che non sia un familiare che si lamenta per la tapparella rotta?