Trump e Putin: diplomazia o gioco di potere? Il bluff delle 24 ore
Se la politica internazionale fosse una partita a scacchi, l’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti assomiglierebbe al momento in cui il giocatore butta all’aria la scacchiera e dichiara trionfante: “Bene, facciamo a modo mio”. Ecco, quindi, che il nuovo presidente eletto ha iniziato la sua serie di telefonate diplomatiche, collezionando leader mondiali come fossero francobolli di una collezione privata. Ma non tutti sono stati pronti a rispondere al suo squillo. Mentre Trump sorseggiava il suo caffè, arricchito da una generosa dose di auto-compiacimento, dall’altra parte c’era qualcuno che, con il telefono ben posato sulla scrivania, non si è fatto problemi a ignorare una chiamata che, in realtà, non è mai arrivata: Vladimir Putin.
“Credo che parleremo”, ha detto il Tycoon riguardo a una possibile conversazione con il leader russo, lasciando intendere che il telefono di Putin squillerà presto. Ma dall’altra parte del Cremlino, il presidente russo, con il suo solito sorriso glaciale, ha dichiarato: “Semplicemente non lo faccio”. Insomma, se fosse un ballo tra vecchi amici, Putin avrebbe decisamente deciso di non partecipare alla prima danza. Ma Trump, fedele al suo stile da uomo d’affari, non sembra perdersi d’animo. Ha infatti già parlato con “circa 70 leader mondiali”, tra cui un entusiasta Netanyahu che, a quanto pare, ha trovato la conversazione “molto positiva”.
Peccato che non tutti nel mondo condividano l’entusiasmo per il secondo mandato di chi ha promesso una risoluzione della guerra tra Russia e Ucraina in 24 ore. “Una soluzione rapida non significa necessariamente una pace giusta”, ha commentato un Vladimir Zelenskij piuttosto scettico dalla conferenza stampa a Budapest, dove si stava svolgendo il vertice della Comunità Politica Europea (CPE). Un incontro cruciale che ha riunito i leader europei per discutere le sfide legate alla sicurezza, dall’aggressione russa in Ucraina alle crescenti tensioni in Medio Oriente. “Credo che Trump voglia davvero una soluzione rapida, ma ciò comporterebbe delle perdite per l’Ucraina”, ha dichiarato il presidente ucraino, facendo eco alle preoccupazioni di molti presenti.
Intanto, Putin non ha perso tempo a scaldare la platea del Club Valdai, il prestigioso forum internazionale che ogni anno riunisce in Russia politici, esperti e intellettuali da tutto il mondo per discutere di questioni geopolitiche. Questo evento, da tempo divenuto il palcoscenico privilegiato del Cremlino, offre a Mosca l’opportunità di veicolare la propria visione del mondo e influenzare il dibattito internazionale, presentando una narrazione alternativa alle politiche occidentali. In uno dei suoi discorsi che oscillano tra il comizio e la dichiarazione di guerra, Putin ha colto l’occasione per lanciare nuove (o vecchie?) accuse all’Occidente: “Il liberalismo occidentale è degenerato in un’estrema intolleranza e aggressività verso qualsiasi pensiero sovrano e indipendente”, ha tuonato, puntando il dito contro il liberalismo occidentale, colpevole, secondo lui, di sostenere “Neonazismo, terrorismo, razzismo e persino il genocidio di massa delle popolazioni civili”.
Mentre Trump si gode i riflettori, a Odessa le luci sono letteralmente spente. In una gelida notte di novembre, droni russi hanno colpito la città portuale, danneggiando scuole e case, spezzando la quiete di una popolazione già devastata da anni di conflitto. Le immagini della scuola ‘125’ sventrata, le finestre frantumate e il fumo che avvolge i resti dell’edificio, dipingono un quadro ben diverso dalle chiacchiere tra potenti su “colloqui positivi”. Sulla linea del fronte, non ci sono sorrisi diplomatici, solo il freddo pungente dell’inverno che si avvicina, accompagnato dalle esplosioni e dal terrore.
Ma torniamo alla partita tra Trump e Putin. Tra un’accusa e l’altra, il presidente russo ha lasciato cadere una frecciatina, mascherata da gentile augurio: “Colgo l’occasione per congratularmi con Trump, ma non dimentichiamo che stiamo parlando di un paese ostile, direttamente e indirettamente coinvolto in una guerra contro il nostro stato”, una dichiarazione che, in sintesi, suona come: “Bentornato alla Casa Bianca, ma non illuderti che ti accoglieremo con il tappeto rosso”.
Nel frattempo, dalle trincee ucraine, soldati come Maksim Sviežencev non si lasciano facilmente incantare dalle promesse altisonanti di Trump. “La realtà è che semplicemente non sappiamo cosa accadrà. Trump è imprevedibile. Una volta dice una cosa, il giorno dopo ne fa un’altra”, ha comunicato Maksim all’americana National Public Radio (NPR), con la voce che quasi si perdeva nel rombo dei droni russi che echeggiavano sopra le loro teste. “Qui sul fronte, vediamo ogni giorno il costo reale di questa guerra. È facile parlare di pace da un ufficio lussuoso, ma noi ci chiediamo quale sarà il prezzo che dovremo pagare per questa ‘pace’ promessa”.
È difficile non provare amarezza di fronte all’idea che il destino di milioni di ucraini possa dipendere dalle telefonate tra leader che trattano la pace come una merce da negoziare. Maksim, con la divisa sporca di fango e il volto segnato dalla stanchezza, ha commentato con durezza: “Noi non combattiamo per accordi diplomatici, ma per la nostra terra, per la nostra libertà. Le loro promesse non fermano i missili che continuano a piovere su di noi”.
E se Trump ha già lasciato intendere l’intenzione di ridurre gli aiuti miliardari all’Ucraina, i dubbi sul suo reale impegno a difendere Kiev contro l’aggressione russa non fanno che aumentare. Dopotutto, parliamo dello stesso uomo che ha accusato Zelenskij di aver scatenato il conflitto. Ricordiamo l’“Ucrainagate”? Nel 2019, Trump cercò di estorcere al presidente ucraino un’indagine su Joe Biden e suo figlio Hunter in cambio di aiuti militari, piegando la politica estera ai propri interessi. Zelenskij, di certo, non ha dimenticato quell’episodio, sebbene per ora abbia scelto una facciata diplomatica congratulandosi con Trump. Ma dietro queste dichiarazioni di facciata, potrà mai celarsi un autentico intento di collaborazione?
In questa nuova stagione politica, il mondo trattiene il fiato mentre Trump si crogiola nell’idea di essere l’uomo che porrà fine al conflitto. Ma la vera domanda è: sarà davvero disposto a fare ciò che serve per proteggere un’Europa sotto assedio, quella stessa UE che non ha esitato a criticare in campagna elettorale? O, tra un tweet e l’altro, permetterà a Putin di continuare la sua partita fatta di droni e bombe, mentre in Ucraina la gente riempie bottiglie d’acqua dalle fontane pubbliche, preparandosi a un inverno ancora più rigido?
L’unica certezza è che, tra discorsi infuocati e promesse vane, i potenti continuano a danzare sul palcoscenico di una diplomazia che suona come un’orchestra stonata: violini che stridono mentre bombe esplodono, fiati che soffiano note fuori tempo mentre i droni solcano i cieli. Qui, i cittadini attendono in silenzio, dimenticati e sospesi nell’incertezza, domandandosi quando il prossimo atto di questa tragedia senza fine si abbatterà su di loro.