Delivery: l'algoritmo tiranno che gestisce i rider
«Guarda! Noi più organizzati questa la chiamiamo la cassetta degli attrezzi, dentro c’è il mini compressore a batterie per le gomme, un powerbank potente per la ricarica del cellulare, una borraccia piena d’acqua e una vuota per quando non trovo un posto dove far pipì». Giovanni mostra a Panorama il contenuto di un borsello agganciato al tubo centrale della sua bicicletta, e scoppia in una risata isterica. Fa il rider a Bari e lavora per due piattaforme di delivery. Ha una partita Iva e a fine mese porta a casa tra 700 e 800 euro. «Ma mi ammazzo di consegne» commenta. Poi mostra i dati sulla sua app: «E io sono uno con un tasso di riassegnazione molto basso e quando la piattaforma le avvia faccio pure le sfide». La «sfida» è la nuova frontiera per chi consegna il cibo a domicilio: un meccanismo guidato dall’intelligenza artificiale per ottenere bonus. «Quella intermedia è da 50 euro ogni dieci consegne. Ma incassi solo se la completi» precisa. «Come se non fosse già una sfida il lavoro di routine. Una volta salito in sella non puoi fermarti».
La vita da rider è regolata da un algoritmo informatico. Tutte le aziende ne sono dotate e fanno a gara per implementarlo con sofisticatissimi sistemi di intelligenza artificiale che controllano costantemente i rider, dettano i tempi e li penalizzano, anche economicamente se non sono in linea con gli standard impostati. Così, devono correre, correre. Questo significa che nelle nostre città si spostano nel traffico infrangendo ogni regola, pur di portare a termine l’impegno. È sotto gli occhi di tutti. Imboccano la strada in contromano, passano sui marciapiedi, ignorano regolarmente i semafori rossi. Sempre più veloce su quelle bici che sono praticamente motorini elettrici che ormai funzionano senza neanche pedalare: basta azionare un pulsante sul manubrio (come già raccontato da Panorama in una precedente inchiesta).A Torino, tempo fa, è accaduto un episodio esemplare: mentre attraversava sulle strisce, un passante ha gridato contro un rider che, con gli occhi sul telefono, l’ha urtato con la bici. A quel punto il ragazzo, un 17enne, è sceso di sella e, infuriato, ha aggredito a calci e pugni il pedone. Certo, si tratta di un caso limite. Ma la convivenza sulle strade diventa sempre più difficile. A Milano è impossibile non notarli con i loro zaini colorati, accalcati, in attesa davanti ai ristoranti. Tutto parte dall’app, attraverso la quale possono prenotare le sessioni di lavoro. Il sistema è altamente organizzato: gli slot, o fasce orarie, sono resi disponibili dalla piattaforma in base al fabbisogno previsto dall’algoritmo, che assegna priorità a chi ha punteggi reputazionali più alti.
A Roma, dove la competizione tra fattorini è particolarmente accesa, il punteggio è fondamentale. Basato su affidabilità e partecipazione, decide chi ha accesso ai turni migliori. Chi rispetta le sessioni prenotate e non le cancella guadagna punti, mentre a ogni infrazione corrisponde una penalizzazione. La domenica pomeriggio una notifica informa i rider della fascia oraria in cui potranno prenotare i turni per la settimana successiva. A Napoli in molti raccontano di come le rigide regole imposte dall’algoritmo non lascino spazio per gli imprevisti. «Se perdi punti è come cadere in un buco nero», racconta Antonio, aggiungendo: «Non riesci più a risalire e i turni migliori vanno sempre agli stessi». E mostra sull’app una voce che conferma: «Più alto è il punteggio, prima potrai accedere al calendario». Una volta prenotata una sessione il rider deve recarsi nella zona assegnata e connettersi entro 15 minuti dall’inizio del turno. Il mancato rispetto di questa regola comporta una perdita di punteggio. Questo spinge molti lavoratori a sacrificare tempo e salute e «a spingere l’acceleratore» che mette in pericolo loro e quelli che incontrano sul percorso. Il sistema di gestione delle fasce orarie è stato introdotto tra il 2017 e 2018. Poi è arrivato il contratto nazionale di lavoro. Ma siccome nasceva da un accordo di Assodelivery, che rappresenta il 90 per cento dei lavoratori, con l’Ugl, da sinistra hanno tentato di boicottarlo. E non è finita: i Paesi Ue per ben due volte non sono riusciti ad approvare la direttiva che vorrebbe imporre alle piattaforme di garantire contratti migliori e maggiori tutele. Sebbene i rider siano, formalmente, degli autonomi, il controllo esercitato dall’algoritmo solleva interrogativi sulla reale natura del loro rapporto di lavoro. La pianificazione centralizzata, le rigide regole operative e le penalizzazioni sembrano avvicinarsi più a un modello mascherato di subordinazione. E c’è, come accennato, un problema di sicurezza. Per scambiarsi informazioni e consigli ben 16 mila rider italiani si incontrano quotidianamente online sul gruppo Facebook Riders Italia. Alessandro, da Torino, descrive gli incidenti causati dalle traversine del tram: «Un rider si è schiantato con lo scooter e un altro è caduto in bici. State attenti quando vi muovete dove ci sono i binari». Si calcola che il 39 per cento di loro sia stato coinvolto in un incidente stradale nell’ultimo anno. Tuttavia molti di questi eventi non risultano all’Inail e non entrano nelle statistiche. E a confermare che si tratta di un lavoro rischioso e usurante c’è uno studio della Statale e del Policlinico di Milano. Dai questionari posti ai lavoratori dai ricercatori è emerso che il 44 per cento di loro lavora sette giorni su sette, che quasi uno su tre viene insultato mentre si occupa delle consegne e che il 12 per cento è stato aggredito almeno una volta.
Ingredienti che disincentivano gli studenti, un tempo molto numerosi nelle file dei rider e oggi solo una sparuta minoranza. Il lavoratore tipo, spiegano fonti sindacali, è maschio, pakistano o comunque asiatico, under 35. Ma gli italiani non mollano. Nonostante le difficoltà. Anche tecniche, a volte. Federico, rider di Deliveroo, racconta di un ordine non consegnato che lo ha lasciato con un buco di 40 euro: «L’assistenza non capisce niente e senza screenshot hai perso i soldi». Davide, che consegna per Rushers, denuncia il pressing: «Ti chiamano di continuo per convincerti a fare le consegne che rifiuti». C’è comunque ancora chi per lavorare è disposto a tutto. Enrico, per esempio: «Ho compilato il form per la visita medica ma non ho ricevuto risposta, ora ho 30 giorni di tempo, poi mi sospenderanno l’account. La volevo fare a mie spese ma mi è stato detto che deve prenotarla l’azienda». Condizioni che portano sempre verso un’unica direzione. E se nel 2020 amministratori delegati e legali rappresentanti di Glovo Foodinho, JustEat e Deliveroo sono finiti nel mirino della Procura di Milano per l’ipotizzata «violazione degli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro», il pm Paolo Storari è andato oltre e la scorsa estate ha ficcato il naso nel sistema gestionale di Amazon. E dall’attività investigativa è emerso che «si assiste, in particolare, alla sistematica tendenza alla spersonalizzazione del lavoro in organizzazioni divenute data-driven, che inevitabilmente conducono alla delega all’algoritmo dei poteri datoriali».
L’algoritmo gestionale, che secondo la Procura massimizzerebbe «la produttività», consentirebbe «di elaborare le schede che vengono periodicamente consegnate ai singoli corrieri e in cui vengono annotati i tempi medi». Tre, quattro minuti a pacco, 500 minuti di tempo per l’intero giro consegne, compresa una pausa pranzo di mezz’ora, non un minuto in più. Perché l’app registra tutto: percorso, stato della consegna e orari, log-in del personale che ha operato. In sostanza, è la conclusione del pm Storari, «i soggetti che prestano materialmente la propria opera non svolgono un’attività economica indipendente». Quanto è stato scoperto appare totalmente sovrapponibile col lavoro dei rider sulle strade delle grandi città italiane. E lo chiamano ancora lavoro autonomo.