Foibe: il passato che non passa
Fra Trieste, Gorizia e la Slovenia, targhe e scritte celebrano personaggi e ricorrenze dell'espansionismo jugoslavo dopo la Seconda guerra mondiale, a conclusione della lotta contro il nazi-fascismo. «Sono testimonianze che offendono la nostra storia» accusano gli amministratori locali.
«La scritta "Tito" sul monte Sabotino non solo ha caratteri cubitali, ma viene pure rinfrescata da giovani comunisti sia sloveni sia, talvolta, italiani» spiega a Panorama il sindaco di Gorizia, Rodolfo Ziberna. «Alzare gli occhi e vedere ogni giorno il nome di chi ha inflitto profonde ferite ancora aperte e sofferenze alla nostra gente non è storia, ma provocazione». Il sindaco si riferisce alla scritta, realizzata con le pietre bianche del Carso, sul versante sloveno del monte Cocusso.
La scritta «Tito» sul versante sloveno del monte Cocusso.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, il capoluogo isontino venne occupato dalle forze di Josip Broz Tito, che deportarono 665 goriziani, compresi esponenti del Comitato di liberazione non allineati con l'espansionismo jugoslavo. E per questo spariti per sempre nel nulla. Il 13 luglio si è svolta la «storica» visita alla foiba di Basovizza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, mano nella mano con il presidente sloveno, Borut Pahor, il primo dell'ex Jugoslavia.
Però, fra gli osanna alla riconciliazione politicamente corretta e le pesanti recriminazioni, non è stato stigmatizzato il fatto che a Trieste e Gorizia ci sono ancora due enormi scritte «Tito» sulle alture slovene affacciate sul Carso. E nel capoluogo giuliano, alcune targhe inneggiano alla «liberazione» di Trieste da parte del IX Corpus del maresciallo jugoslavo. In realtà furono 40 giorni di annessione con infoibamenti e deportazioni di fascisti, militari ma anche civili innocenti. Da quest'anno l'amministrazione comunale ha voluto ricordare ufficialmente la ritirata dei titini, il 12 giugno, come Giornata della liberazione della città dall'occupazione jugoslava.
In questi tempi di furia iconoclasta dei talebani d'Occidente, in nome del politicamente corretto, che abbatte le statue di Cristoforo Colombo e vorrebbe la stessa fine per quella di Indro Montanelli a Milano, nessuno punta il dito contro le targhe che inneggiano all'occupazione titina di Trieste. Sulla strada per Zolla, a due passi da Trieste, una lapide ricorda l'arrivo dei titini: «Qui combatterono per la liberazione del Carso triestino e da qui il 28 aprile 1945 partirono verso Trieste le unità della 30° Div. del 9° Korpus» dell'Esercito popolare di liberazione jugoslavo. La targa è stata affissa dall'Associazione nazionale partigiani. Alcuni ex missini la picconarono, ma furono condannati e costretti a ripagarla nuova.
La targa affissa dall'Associazione nazionale partigiani.
Una targa simile si legge nell'abitato di San Giuseppe della Chiusa, alla periferia della città, proprio di fronte alla chiesa parrocchiale, ma nel 2005, non nel tragico e divisivo secolo scorso. Sotto una rigorosa stella rossa, la dicitura bilingue, ricorda con orgoglio che nel maggio-giugno 1945 i combattenti di uno dei battaglioni di Tito, che occuparono Trieste, erano stati ospitati nel paese. E addirittura a Sgonico, sul Carso triestino, la scuola elementare statale di lingua slovena si chiama «1 maj 1945». Non si tratta della Festa dei lavoratori, ma dell'inizio dell'occupazione di Trieste da parte dei titini.
La scuola di Sgonico.
Sul monte sloveno Cocusso, come davanti a Gorizia, campeggia la scritta bianca in pietra «Tito», ma in verticale. Nel 2015 era stata fatta a pezzi dai militanti di CasaPound e poi è stata ripristinata. «Noi ci siamo liberati il 12 giugno del 1945 da Tito, ma sloveni e croati si sono scrollati di dosso l'ex Jugoslavia nel 1991» osserva Paolo Sardos Albertini, presidente dell'associazione patriottica Lega nazionale. «Le targhe, le scritte, le bandiere e le bustine con la stella rossa dei titini esibite a ogni primo maggio a Trieste sono offensive anche per loro».
I peggiori massacri di Tito furono compiuti con il quarto di milione di prigionieri di guerra croati, sloveni, serbi, compresi civili, fatti fuori dopo la fine del secondo conflitto mondiale, molti dei quali si erano schierati dalla parte di Adolf Hitler e Benito Mussolini. L'ultima prova dei crimini di guerra titini è venuta alla luce il 20 luglio con la riesumazione dei resti umani di 814 persone nella foiba di Jazkova, in Croazia. Non solo combattenti che si erano arresi, ma medici, infermieri e suore prelevati dagli ospedali di Zagabria. E non mancano le ossa di giovanissime donne e di bambini, probabilmente familiari dei «nemici del popolo» trucidati dai boia titini.
Targa con la stella rossa alla periferia di Trieste che rievoca il passaggio dei partigiani di Tito.
Sulle targhe che inneggiano all'occupazione il sindaco del capoluogo giuliano, Roberto Dipiazza, dice a Panorama: «Non faccio più battaglie di retroguardia. Il giorno dopo i presidenti italiano e sloveno sulla foiba di Basovizza è venuto a trovarmi il nostro ambasciatore a Zagabria. E abbiamo concordato che andrà coinvolto anche il capo di Stato croato in una futura opportunità a Trieste per un altro segnale forte sulla tragica storia del Novecento».
Si spera con meno concessioni imposte rispetto alla «riconciliazione» con gli sloveni. Sardos Albertini non ha dubbi: «Il mio auspicio è che il presidente della Croazia venga sulla foiba così sarà ufficialmente sancito il ricordo non solo di tutti gli italiani, ma anche di sloveni e croati vittime di Tito».