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Truffa del falso Crosetto: il colpo che ha beffato Massimo Moratti

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Qualcuno ci vede la sceneggiatura di una spy story fantapolitica: la voce sintetica del ministro della Difesa che ti chiama personalmente in ufficio, software avveniristici, intelligenza artificiale, raffinatissimi programmi per indurre in inganno il gotha dell’imprenditoria italiana. E però, diciamola tutta: la straordinaria storia del finto Crosetto che cerca di fregare i miliardari d’Italia, stringi stringi, ricorda piuttosto la mitica Tototruffa datata 1962, quando i computer erano di là da venire, e il Principe de Curtis cercava di vendere la fontana di Trevi al turista cafone di nome Deciocavallo.

In base a quanto è dato sapere, la stragrande maggioranza degli imprenditori coinvolti ha fiutato il tranello. Ma sono particolari da prendere con le pinze, perché immaginiamo che nessuno voglia passare per fesso: e infatti nei dispacci di queste ore già si va sul vago, tirando dentro gli staff. Eppure, nel cast di questo fenomenale canovaccio cinematografico svetta una vittima accertata: un capitano d’industria contro il quale effettivamente la truffa si sarebbe inspiegabilmente perfezionata.

A ricoprire suo malgrado la parte di Deciocavallo è l’alto rappresentante della dinastia milanese dei Moratti, Massimo. Stirpe di petrolieri, che a quanto fare si è fatto spillare un milione di euro dalla banda del finto Crosetto. Lui si è giustificato dicendo che “questi sono bravi, può capitare”, eppure, a voler ben guardare, resta un alone di surrealismo sulle modalità della truffa.

Proviamo a ricapitolare: a Moratti squilla il telefono, il finto Ministro gli dice che ha bisogno di soldi per pagare il riscatto di non si sa quale italiano rapito all’estero, dopodiché risquilla il cellulare, stavolta è un generale, di non si sa quale stato maggiore: fa pressione all’imprenditore perché evidentemente non c’era un minuto da perdere, una questione di vita o di morte che Moratti apra il portafoglio. Come se la storia non fosse già abbastanza comica, i fantomatici vertici della Difesa hanno preteso che la transazione avvenisse tramite bonifico, su un conto estero domiciliato ad Hong Kong.

Di fronte a tutto questo, a chiunque sarebbe suonato un campanello in testa: come minimo sarebbe emersa la pressante necessità di approfondire. E Moratti che fa? Paga. Non aspetta un secondo e paga. Non si insospettisce, non denuncia, non chiede lumi a un avvocato, a un commercialista, a un un addetto stampa, un maggiordomo, un collega imprenditore, non chiede conferme all’autista, a un parente, a un terzino dell’Inter: no, Moratti paga sulla fiducia. Non si sa se lui personalmente o per interposta persona, accende il pc, e fa partire non uno, ma due bonifici bancari, totale 1 milione, verso Hong Kong. Per carità, i criminali erano “bravissimi”: ma anche Moratti ci ha messo del suo.

Avrebbe potuto, come fanno tutti in questi casi, chiedere una mail scritta di conferma sulla richiesta di soldi. E’ ciò che ha fatto tra gli altri lo staff di Giorgio Armani: ma non è un colpo di genio, è semplicemente la prassi, per accertarsi delle generalità di chi sta all’altro capo del telefono. Moratti ha voluto distinguersi. La botta finanziaria ricevuta è dura: ma sempre infinitamente più piccola rispetto ai soldi perduti da proprietario dell’Inter.




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