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Stefano Bollani: «Il jazz è un ponte tra culture lontane»

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«La vita, amico, è l'arte dell'incontro» non è soltanto lo straordinario album del 1969 di Vinicius de Moraes, Giuseppe Ungaretti e Sergio Endrigo, ma anche una verità universale che tutti noi abbiamo potuto verificare di persona. Un’ arte, quella dell’incontro, di cui è maestro assoluto Stefano Bollani, pianista tanto estroso caratterialmente quanto musicalmente, che ha sempre cercato nuovi stimoli dall’incontro con artisti assai diversi da lui. La carriera di Bollani è legata a filo doppio a quella di un altro “big” del jazz italiano e internazionale, il grande Enrico Rava. I due musicisti si conoscono dal 1996: Bollani ha sempre considerato Rava il suo mentore, mentre il trombettista considera Bollani «il pianista più dotato dai tempi di Art Tatum». Due amici di vecchia data che si ritroveranno, dopo tanto tempo, sullo stesso palco il 17 febbraio in un concerto-evento al Teatro Politeama Rossetti di Trieste, insieme alla “Stefano Bollani All Stars” di cui faranno parte anche Paolo Fresu, Antonello Salis, Daniele Sepe, Ares Tavolazzi e Roberto Gatto. Ospiti della serata saranno tre fra i più brillanti giovani talenti del jazz italiano: Frida Bollani, Matteo Mancuso e Christian Mascetta. L’evento è prodotto dall’associazione Euritmica di Udine per la direzione artistica di Giancarlo Velliscig, che cura tutto il progetto “Ponte a NordEst”, inserito nel programma di GO! 2025 (Gorizia capitale Europea della Cultura), ritenuto strategico dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia che lo sostiene. Il concerto sarà il culmine di una residenza artistica del gotha del jazz italiano, che si terrà a Gorizia dal 13 al 16 febbraio, per un lavoro congiunto e specifico mai realizzato fino ad ora nella prima capitale culturale transfrontaliera d’Europa.

Stefano Bollani, come nasce l’idea di questo concerto eccezionale con la tua all star band a Trieste, dopo una settimana di residenza artistica a Gorizia?

«L'idea è nata insieme a Euritmica, l'associazione che organizza gli eventi jazz di Gorizia capitale europea della cultura. Io mi sono voluto inventare, insieme al direttore artistico Giancarlo Velliscig, questo concerto di “all stars” che mette insieme innanzitutto musicisti molto lontani fra loro in termini anagrafici, da Enrico Rava, che ha 85 anni, a mia figlia Frida, che ne ha 20, ma anche geografici. Quindi avremo sul palco a Trieste quasi una nazionale del jazz perché ci sono un paio di sardi, c’è il nord, il centro, c'è la Sicilia, siamo abbastanza coperti. Poiché la rassegna musicale su Gorizia capitale europea della cultura si intitola Ponte a NordEst, abbiamo pensato che la musica è un ponte che unisce non solo culture lontane geograficamente, ma anche da un punto di vista cronologico. Per mettere in pratica questo concetto abbiamo deciso di stare una settimana tutti insieme a Gorizia, cosa abbastanza rara per i musicisti di jazz, per una residenza artistica e per fare le prove di un concerto speciale, in cui non suoneremo cose troppo facili. Abbiamo pensato di fare un rivisitazione, in chiave jazz, di canti che provengono da ogni parte del mondo: possono essere di estrazione popolare, dall'Est europeo e dall’Argentina, ma anche provenire dall'opera o da un grande compositore. L'importante è che ognuno di loro si portasse appresso il sapore di un determinato periodo storico, per poi prenderlo e traghettarlo nel presente. Oggi, con la globalizzazione, è più difficile capire se un artista è svedese e se l'altro è giapponese perché c’è molta uniformità nel sound. Nei canti popolari ognuno porta le caratteristiche della sua provenienza e questo è molto bello perché ti rendi conto che la musica nasce tutta insieme, c'è una matrice comune, ma poi, in ogni luogo, si è sviluppata con caratteristiche leggermente diverse»

Anche nel tuo programma Via dei Matti Numero Zero ti piace mettere insieme compositori di epoche e di luoghi diversi, in modo coinvolgente e al tempo stesso divulgativo. Come scegli gli artisti di cui parlare insieme a Valentina Cenni?

«Ti ringrazio, ma in realtà lo scopo di Via dei Matti è divulgativo per modo di dire perché non facciamo la storia della musica, ma raccontiamo semplicemente quello che ci piace e che ascoltiamo, perché ci sono così tanti artisti meravigliosi al mondo, sia del passato che nel presente. Sono veramente tanti quelli che hanno portato bellezza nel mondo, anche perché, come pianeta, cominciamo ad avere una certa età. Nessuno ci dice quali artisti trattare un determinato giorno, forse quando arriveremo alla ventesima edizione parleremo anche di un musicista che non ci piace, ma, a quel punto, sarebbe meglio chiudere i giochi»

A proposito del tuo programma, a dicembre c’è stata da te l'ultima apparizione pubblica del cantautore Paolo Benvegnù, che poi è morto pochi giorni dopo. Che ricordi hai di lui?

«Paolo l'ho conosciuto nel 2000 perché io e Riondino dovevamo fare uno spettacolo per cui cercavamo voci: Paolo bazzicava Firenze e aveva a che fare con Marco Parente, con cui io sono cresciuto, così abbiamo pensato di coinvolgerlo nel nostro progetto. Paolo ci ha stupito soprattutto come cantante, per il suo timbro vocale caldo. In tanti, questi giorni, hanno sottolineato giustamente la bellezza e la profondità dei suoi testi, il suo essere un intellettuale prestato alla musica, la sua onestà, la sua umiltà, la sua purezza, tutte qualità che ho verificato di persona anch’io e tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, ma ci tengo a sottolineare, in quest’intervista, che Paolo era un grande cantante, con un timbro vocale particolarissimo»

Per anni si è detto che in tv la musica, se si esclude il Festival di Sanremo, non funziona, ma, a giudicare dal successo di critica e di pubblico di Via dei Matti Numero Zero, non è sempre così. Secondo te che cosa è piaciuto di più agli spettatori del tuo programma?

«Forse perché io e Valentina cerchiamo di mettere sempre al centro la musica come punto di riferimento di un racconto. Può sembrare una banalità, ma non si dirà mai abbastanza che la musica è un linguaggio universale che non ha bisogno di essere tradotto e che non ci sono lingue in giro che hanno la stessa caratteristica, perché, se tu l'inglese non lo sai, qualcuno te lo deve tradurre per capire, invece la musica arriva direttamente al cuore, salta la testa, a volte va dritta alle gambe, ti fa ballare, ridere, piangere, prescindendo del tutto dalla tua cultura, dalla tua età e dalla tua provenienza geografica»

Ho letto in un’intervista che tu e Valentina vi sentite come John Lennon e Yoko Ono. In che senso?

«Era una battuta, ovviamente, non solo perché non voglio paragonarmi musicalmente a un genio come John Lennon, ma anche perché spero di non fare la sua fine! L'immagine di John Lennon e Yoko Ono è quella che abbiamo io e Valentina, cioè di due persone innamorate che, dopo aver fatto hanno due percorsi di vita completamente diversi, si incontrano, si amano e da lì in poi fanno tutto insieme, sia nella vita che nell’arte. Solo in questo siamo simili a loro»

Rimanendo in ambito Beatles, che sono tra i tuoi principali riferimenti musicali, qualche giorno fa i Fab Four hanno vinto un Grammy Award come migliore performance rock per Now and Then, un brano realizzato parzialmente con l'intelligenza artificiale. Che cosa ne pensi? C'è il rischio, per un musicista jazz, di essere sostituito da un software?

«Guarda, io, sull'intelligenza artificiale, sto finalmente iniziando a riflettere, quindi ci dobbiamo risentire più avanti perché non ho ancora una visione chiara. Quello che posso dirti è che bisogna distinguere tra la AI che pulisce le tracce, come nel caso dell'ultimo brano dei Beatles, e invece l'intelligenza artificiale che sostituisce il musicista e che scrive autonomamente dei pezzi. Sulla prima, ben venga, è semplicemente una nuova tecnologia che ci permette di fare delle cose a cui non avevamo pensato, se poi la usiamo bene o male, dipende da noi. Sulla seconda, cioè che vada a sostituirsi all'uomo, questo è un dibattito molto più ampio, che non riguarda soltanto la musica. Io, per quello che ho sentito finora, non sono ancora preoccupato di essere presto sostituito in un ambito molto creativo come quello del jazz, in cui sono fondamentali l’improvvisazione e il dialogo tra i musicisti. Magari, nel campo delle canzoni da discoteca, per le pubblicità o nei videogiochi l'intelligenza artificiale potrebbe inserirsi con più prepotenza. I brani jazz fatti dalla AI che ho sentito, pur suonati in modo impeccabile, erano prevedibili e piatti, sentivi che mancava qualcosa. Credo che per ora l'intelligenza artificiale sia molto utile, ma ancora non abbastanza calda per fare arte da sola, anche perché serve avere una visione personale per inventare qualcosa, che sia un disco, un romanzo o una poesia»

In effetti il jazz, a differenza di altri generi, si basa per buona parte sull’improvvisazione e sullo scambio dal vivo…

«Esatto! Pensa al concerto di Trieste del 17 febbraio, in cui mi confronterò con tanti musicisti diversi. Quando sarò sul palco con loro suonerò una sequenza di note e di accordi che non farei mai da solo a casa. Questa è la magia del jazz per me: perché c'è un pubblico, perché sono emozionato, perché c'è un bel teatro, perché ci sono i miei amici sul palco, perché magari quel pezzo non lo conosco e per questo sono stimolato e faccio una cosa originale. Ci sono tanti fattori che sono quasi tutti annoverabili fra gli imprevisti, che sono il sale dell’improvvisazione, mentre l'intelligenza artificiale, poverina, non gestisce gli imprevisti, ma li domina»

A dicembre è uscito il tuo cinquantesimo album in studio, 18 Preludi, di cui hai anche pubblicato gli spartiti, non tanto affinché i pianisti li suonino pedissequamente, ma per dare loro un punto di partenza per poi svilupparli in maniera autonoma, giusto?

«Sì, l'obiettivo è proprio questo. Il progetto non è nato per essere suonato in pubblico, ma per gli altri: scrivo 18 preludi per giovani musicisti e poi pubblico gli spartiti. Solo che, dopo averli composti, li ho suonati anch’io perché ho pensato: come fanno ad avere voglia di suonarli, se prima non li sentono? Non credo che la mia versione possa essere fuorviante, anch’io mi ispiro a musicisti del passato o del presente, ma poi faccio sempre di testa mia. Sono brani nati per i giovani, volevo scrivere delle cose facili, anche se non facilissime, che fossero suonabili da un ragazzo che sta studiando pianoforte in conservatorio. Poi, l’idea originaria si è trasformata a poco a poco in un progetto discografico autonomo, che può essere sia ascoltato dagli appassionati di jazz che suonato da altri musicisti»

Hai suonato in ogni parte del mondo e per ogni tipo di pubblico, ma è vero che il concerto che più ti è rimasto nel cuore è quello all’interno di una favela di Rio De Janeiro?

«Chiaramente è difficile dire se è stato il concerto più bello che ho fatto, ma è uno di quelli che non mi dimenticherò mai perché si è tenuto in un luogo, la favela Pereira da Silva, dove non ha suonato quasi mai nessuno. Era la seconda volta che portavo un pianoforte a coda all’interno di una favela, la prima è stata per un evento dedicato ad Antonio Carlos Jobim. È stato molto emozionante perché mi sono trovato a suonare musica popolare brasiliana nel luogo più popolare di Rio de Janeiro, facendo ballare il pubblico carioca anche con arrangiamenti jazz. L’evento, organizzato dal governo brasiliano insieme a Umbria Jazz, ha unito i bianchi benestanti della città ai neri poverissimi che abitano nella favela: è stata una cosa davvero commovente vederli tutti insieme a cantare e a ballare. In più, nel pomeriggio, ho avuto anche il privilegio di fare un giro all'interno della favela, “scortato” dai ragazzi del posto. Se non avessi fatto il musicista quell'occasione non l'avrei mai avuta e questo, da bambino, non potevo saperlo. Da piccolo ero molto timido e volevo sempre stare chiuso in camera, non potevo immaginare che, grazie alla musica, avrei girato il mondo e conosciuto così tanta gente».




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