Nell’universo parallelo di Roberto Matta
Cinquanta anni fa lo conoscevamo come Sebastián Matta, e lo si considerava un caso del tutto speciale, al punto che qualcuno, non certo fra i più sprovveduti (la coppia Giuliano Briganti e Luisa Laureati, per esempio), lo riteneva uno dei maggiori artisti in assoluto del secolo scorso. Oggi che lo si chiama Roberto Matta, sono in molti a ricordarlo più come fecondatore di una stirpe di artisti (Gordon Matta-Clark, dissacrante «anarchitetto» morto troppo presto, e Pablo Echaurren, paladino dell’horror vacui, con i quali ha esposto nel 2013 in una mostra alla Fondazione Querini Stampalia, ma anche i meno noti Federica, Ramuntcho e Alisée Matta) che per tutto quanto ha espresso in vita. Possibile che l’unico, grande Matta abbia subito un ridimensionamento critico così rapido o si tratta solo di colpevole dimenticanza? Potrebbe essere stata questa la domanda da cui è partita la mostra retrospettiva, a cura di Dawn Ades, Elisabetta Barisoni e Norman Rosenthal, che la Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro dedica al vulcanico artista nato a Santiago del Cile nel 1911.
Matta ha avuto un legame particolare con l’Italia. Qui ha conosciuto la sua prima consacrazione internazionale, grazie alla Biennale di Venezia del 1948, beneficiando del rapporto con la mecenate Peggy Guggenheim. Italiane sono due delle sue cinque mogli (Angiola Faranda, Germana Ferrari). E significativa è la scelta di Tarquinia, in provincia di Viterbo, come luogo definitivo della sua vita, dopo un irrequieto peregrinare che lo aveva visto muoversi prima a Parigi, città che lo avrebbe più volte accolto anche in seguito, poi nella Spagna di Federico García Lorca e Salvador Dalí, e ancora nella Finlandia di un architetto come Alvar Aalto.
Quindi si muove in una Londra dove frequenta Walter Gropius, Henry Moore e René Magritte, e infine negli Stati Uniti, in cui si rifugia all’alba della Seconda guerra mondiale, ma da cui è costretto ad andarsene nonostante i successi conseguiti, accusato di avere favorito il suicidio del pittore Arshile Gorky perché amante della moglie. Irrefrenabile Matta, mosso da un demone sfrontato che tutto vuole provare non solo nell’arte, non solo nelle relazioni spesso complicate con il resto del genere umano, ma anche nell’impegno civile, portandolo a generose prese di posizione, ora in favore dei repubblicani spagnoli, contro ogni fascismo, ora in favore degli indipendentisti algerini e dei giovani sessantottini francesi, che pure prendevano di mira la sua generazione, ora di Salvador Allende dopo il cui assassinio non vuole più avere a che fare con lo Stato cileno.
Magari è proprio questo il maggiore peccato che si imputa a Matta, l’essere stato, cioè, un uomo profondamente novecentesco, in un momento in cui nei confronti del «secolo breve» si stava prendendo le distanze. Eppure, artisticamente parlando, Matta non è stato un solo Novecento, ma tanti, anche notevolmente diversi fra loro, che hanno individuato una dimensione a suo modo ultra-novecentesca. Matta era portatore di una visione artico lata, ha cercato ipotesi di futuro, pur nella vicinanza al passato più primordiale, per soddisfare un desiderio che il presente gli negava.
Lo vediamo esordire negli anni Trenta, dopo la laurea a Santiago, come aspirante architetto dietro Le Corbusier, anzi, come designer, quando la specializzazione ancora non si era affermata (il piacere per la libera progettazione non lo abbandonerà mai). Inventa poltrone morbide, pneumatiche, antesignane delle formidabili «Malitte» a incastro che disegna per Dino Gavina (1966), che propone attraverso collage che raccolgono l’entusiasmo dei surrealisti, Breton in testa. È Matta la nuova speranza del Surrealismo, il possibile punto di conciliazione fra Carl Marx e Sigmind Freud che Breton auspica. Infatuato della Russia, si avvicina all’esoterismo filosofico di Piotr Uspen sky attraverso il pittore inglese Onslow Ford, cominciando a concepire una quarta dimensione, quella a cui si ispirano gli ectoplasmi delle Morphologies psycologiques. Qui, spazio e tempo diventano un unico moto interiore da cui dipendono i continui avvicendamenti delle cose. Ma Matta ammira anche la realtà stravolta di Guernica di cui aveva sollecitato la conclusione per l’Esposizione Universale del 1937, guardando al Picasso civile come a un modello che sarà ricorrente nella sua carriera, anche nella scelta del prediletto formato lungo orizzontale, che configura un ambiente dell’immaginazione in cui lo sguardo finisce per perdersi.
Tanti conosce, Matta, ma su tanti che lo conoscono - è questo, probabilmente, il suo merito maggiore - lascia profondo il segno, trasformando i bachi in farfalle. Così succede in America, quando il nuovo corso dell’Espressionismo astratto capitanato da Jackson Pollock e dal povero Gorky, attinge a piene mani dal suo psicologismo esistenziale, che non pone limiti alla creatività, accumulando segni che si raggruppano e disperdono come stormi di uccelli in volo. Così succede a Roma, nel 1949, dove il suo esempio incoraggia i giovani artisti progressisti a battere la strada dell’Informale, contro qualsiasi idea di realismo socialista.
Il Matta di Alba sulla terra (1952), prima sua opera acquistata da un museo pubblico italiano, proprio la Galleria di Ca’ Pesaro, è artista in procinto di conseguire la piena maturità, che distribuisce fluttuanti successioni di corpi frattali privi di consistenza materica, lungo scenari squassati da radiazioni metalliche, sentite non come astrazioni assolute, ma piuttosto come mondi possibili e non ancora verificati. Matta concepisce la pittura come esplorazione di universi alternativi e, come un astronauta dell’inconscio, si addentra fra disgregazioni di geometrie solide angolari e negazioni della logica euclidea - Coïgitum (1972). Di tanto in tanto possono anche inserirsi crittogrammi che alludono a chissà quali linguaggi arcani, spiazzando qualunque tentativo di cogliere un equilibrio rassicurante in ciò che, comunque, non può nemmeno dirsi caos. Se questo è probabilmente il Matta più emblematico, sorprenderà constatare come le sue sculture si attengano a caratteri del tutto differenti, bandendo gli impulsi dispersivi, per concentrarsi attorno a simmetrie plastiche che sopravvivono al dato naturale di partenza, come se fossero le loro essenze metafisiche, recuperando la primitiva attrazione per la sacralità degli archetipi. Matta uno, nessuno e centomila, come al solito.