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Led Zeppelin. Trionfo e leggende della band che ha salito la «scala per il paradiso» del rock

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Ci vediamo domani pomeriggio nello scantinato del negozio di dischi a Gerrard Street». Prima di quel giorno non avevano mai suonato insieme Robert Plant, Jimmy Page, John Bonham e John Paul Jones. E nemmeno potevano immaginare che quella session londinese dell’agosto del 1968, nel retrobottega di uno store di vinili, avrebbe cambiato per sempre le loro vite e la storia della musica. Ma è andata proprio così: si trovano, attaccano gli strumenti all’amplificatore e suonano Train Kept A-Rollin, un vecchio blues del 1951. Basta un brano: la chimica tra i quattro è micidiale, la batteria di Bonham risuona come un tuono, il sound della chitarra di Page è qualcosa di mai sentito prima, come la voce di Robert Plant e i giri di basso di Mister Jones. Nemmeno un mese dopo debuttano dal vivo, ancora con il nome provvisorio della band, The New Yardbirds, nel festival estivo organizzato da una scuola a Gladsaxe, in Danimarca. Dei mille presenti allo show serale, una buona parte assiste alle prove pomeridiane seduta a due metri dal palco. Non sanno di aver davanti a loro quella che nel giro di un anno diventerà la più famosa rock band del mondo.


Becoming Led Zeppelin, il docufilm musicale più atteso del 2025, nelle sale italiane dal 27 febbraio, il primo autorizzato e riconosciuto dalla band, cattura per la prima volta l’essenza dei Led Zeppelin agli inizi. «Volevo intrecciare le quattro diverse storie dei membri del gruppo, prima e dopo la formazione, facendo raccontare ampie parti della loro storia solo dalla musica e dalle immagini. Ho usato unicamente pellicole e negativi originali, con oltre settantamila fotogrammi restaurati manualmente, e ho ideato delle sequenze di fantasia, ispirate a Singin’ in the Rain, sovrapponendo filmati inediti di esibizioni dal vivo a fotomontaggi di poster, biglietti e viaggi, per ricreare visivamente il senso di frenesia dei loro esordi» racconta il regista Bernard MacMahon.

Oltre alla musica live e agli album straordinari, i Led Zeppelin, dal 1969 in poi, sono tutto quello che non c’era mai stato prima. Sono l’anomalia nell’ingranaggio del music business che fa saltare il banco. A cominciare dal primo leggendario contratto con la Atlantic Records: ricevono un anticipo stratosferico di 144 mila dollari (un milione e trecentomila dollari di oggi) prima di aver inciso una singola nota, ottenendo la più totale autonomia nella scelta dei tempi per la pubblicazione dei dischi e dei singoli con cui promuoverli. Spetta sempre a loro l’ultima parola sulla grafica delle copertine. Tutto questo grazie alla tenacia di un manager schiacciasassi come Peter Grant.

L’etichetta accetta queste condizioni senza averli nemmeno visti suonare, fidandosi ciecamente dell’intuizione della vocalist inglese Dusty Springfield che raccomanda ai manager della Atlantic «di non farseli scappare». L’anomalia, appunto.

Intorno e dentro ai Led Zeppelin non c’è niente di usuale. Vivono reclusi, senza contatti con il mondo esterno, fatta eccezione per le de cine di groupie che animano i selvaggi after party dopo i concerti. Leggendari quelli andati in scena al sesto piano del Continental Hyatt sulla Sunset Strip di Los Angeles, la quintessenza dello slogan «sesso, droga e rock and roll».

Sono la principale influenza di tutte le hard e heavy band del mondo, ma nei loro pezzi convivono le raffinatezze folk del Galles e il blues del Delta del Mississippi. E poi, i testi, un mistero nel mistero, che oscillano tra l’eros bollente e spregiudicato di Whole Lotta Love e le epiche visioni nordiche di Immigrant Song («il martello degli dèi guiderà le nostre navi verso nuove terre»).

Della loro vita personale non si sa nulla (erano lontani i tempi dei cantanti o presunti tali che pubblicano sui social il piatto di spaghetti con le von gole che stanno mangiando insieme alla fidanzata): nessuna illazione, nessun gossip. Un silenzio assordante che mette in circolo le teorie più strampalate: Jimmy Page, indiziato di satanismo per aver comprato in Scozia la «mansion» dove aveva vissuto l’occultista e astrologo Aleister Crowley (1875-1947). E, poi la loro canzone-manifesto, Stairway To Heaven, «la scala per il paradiso», che facendo girare al contrario il vinile conterrebbe un messaggio satanico nel testo. Leggende metropolitane che però, attraverso il passaparola (siamo negli anni Settanta) alimentano il mito e l’aura mistica intorno al gruppo. Che con i giornalisti non ha mai avuto un buon rapporto.

Ai pochi che li hanno incontrati negli anni Settanta venivano consegnate alcune regole pre-intervista: non rivolgerti alla band se prima non ti parlano loro; puoi fare domande che riguardino solo ed esclusivamente la musica e ricordati che leggono tutto quello che esce su di loro.

Chi scrive ha intervistato Robert Plant e Jimmy Page nel 1998, per la promozione di un album a due, Walking Into Clarksdale. Terrazza di un hotel a Montecarlo: Plant e Page sotto un ombrellone, il giornalista con il sole dritto in faccia.

Chiedo quali canzoni suoneranno nel tour in partenza a breve. Un cenno beffardo d’intesa e poi, con tono fermo e deciso declamano: «Credo che faremo Let It Be dei Beatles, Jumpin’ Jack Flash dei Rolling Stones e My Generation degli Who…». Era lo stress test, e così, dopo una fragorosa risata a tre, è iniziata l’intervista. Finalmente all’ombra. «Non c’è nessuna reunion possibile dopo la morte di John Bonham (il batterista, morto soffocato nel sonno dopo 40 shot di vodka, ndr)» dissero. La loro storia si è chiusa con il concerto del 7 luglio 1980 a Berlino, ma nel 2007 si apre uno spiraglio, un concerto di beneficenza in onore del leggendario discografico Ahmet Ertegun. Due show a Londra con il figlio di Bonham, Jason, alla batteria: ventiduemila biglietti disponibili e venti milioni di richieste. Poi, il silenzio, rotto solo dall’annuncio di Becoming Led Zeppelin, quanto basta per rimettere in moto, anche sulle piattaforme streaming, la voglia di riascoltare la più grande rock band di sempre.




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