Il complotto della frutta
Il dado (da brodo) è tratto; è stato deciso di muovere guerra all’Italia cresciuta troppo nelle esportazioni di cibo e di vino e quei quasi 80 miliardi di euro fanno gola alle multinazionali della nutrizione che, per sostenere le loro lobby, hanno impiegato una montagna di soldi in Europa.
Anche Usaid, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, avrebbe finanziato – parole di Donald Trump - il media Politico per creare una cosiddetta «finestra di Overton»: ovvero uno spazio di informazione per influenzare l’opinione pubblica, e far diventare così accettabile l’idea che l’agricoltura sia nemica dell’ambiente. Di più: ora si scopre che la Commissione Ue ha impiegato altri 140 milioni del bilancio dell’Unione per farsi amici importanti giornali e, proprio un reportage firmato da Alessandro Ford su Politico-Europe, dà la conferma di un simile orientamento.
Il broadcast che si accredita come equilibrato strumento d’inchiesta, spesso diventa invece l’house organ del politicamente corretto. E, per dare una mano al preconcetto anti-italiano, decreta in un suo articolo che la «dieta mediterranea è morta». Anzi, forse, non è mai esistita. Se l’è inventata il biologo Ancel Keys. E perché smontare il regime alimentare del nostro Paese? Lo spiega lo stesso Ford: perché su quella narrazione l’Italia ha costruito il proprio successo commerciale.
Non c’è un dato scientifico che suffraghi la lunghissima dissertazione: unica motivazione per il «trapasso» della dieta mediterranea, il fatto che i bambini italiani, quelli del Sud in particolare, siano tra i più obesi del continente. Che il cibo-spazzatura sia consumato da chi dispone di un basso reddito - anche per colpa delle politiche economiche europee - il giornalista Ford neppure lo considera.
In compenso Serge Hercberg, l’inventore del Nutri-score, l’etichetta a semaforo sui valori nutrizionali, torna ad affermare che «il governo italiano è una lobby contro la corretta alimentazione». Ma il fatto che lo stesso Hercberg abbia anche dovuto correggere l’algoritmo della sua creatura perché troppo smaccatamente favorevole ai cibi ultra-processati, nessuno lo rileva. Anzi, nel suo articolo, Ford scrive che mangiare all’italiana è forse peggio. E tuttavia si capisce che la battaglia è politica da un passaggio cruciale: «I politici italiani sono sempre stati sensibili al cibo, ma il primo ministro Giorgia Meloni ha portato la questione a nuovi estremi». Per aggiungere: «Si dice che gli italiani abbiano due ossessioni: il calcio e il cibo. Silvio Berlusconi ha sfruttato notoriamente il primo, ottenendo grandi risultati elettorali manipolando la mania per il calcio. Giorgia Meloni è andata alla seconda, architettando un pungente gastro-nazionalismo».
Così, come si diceva, il dado (da brodo) è tratto. Si parte da frutta e vino per arrivare ai salumi e ai formaggi utilizzando un redivivo - o mai sopito - Green deal a cui evidentemente la presidente Ue Ursula von der Leyen non vuole rinunciare, resuscitando nell’arcigna spagnola e vicepresidente della Commissione con delega «verde» Teresa Ribera il fantasma del suo predecessore olandese Frans Timmermans. Ecco di nuovo le lobby in azione e il primo Paese da colpire è l’Italia, perché registra il maggior valore aggiunto in agricoltura (tremila euro all’ettaro contro i 2.400 di Francia e i 2 mila della Germania); è quello con la maggiore superficie a biologico, 2,3 milioni di ettari; ma è anche quello che esporta di più prodotti di altissima qualità e che ha approvato la legge sul «conta dino custode», intestando agli agricoltori il ruolo sociale di difensori e curatori dell’ambiente. Insomma, un modello che è come sabbia nell’ingranaggio politicamente corretto appunto, ed economicamente vantaggioso per gli Stati del Nord, che la presidente Ue von der Leyen ha in testa.
La convinzione della Commissione appare quella che si possa fare a meno dell’agricoltura, la quale oltretutto inquina. Von der Leyen aveva promesso ai trattori che assediavano palazzo Berlaymont - e che ora riaccendono i motore - più soldi alla politica agricola comune, meno vincoli del Green deal.
In queste settimane, a Bruxelles, stanno studiando di dirottare fondi agricoli e per lo sviluppo rurale al piano per gli armamenti. Nel frattempo, varano il BeCa (approvato lo scorso 4 febbraio) il protocollo anti-cancro che impone tasse agli alcolici e in particolare al vino, etichette allarmistiche e limiti alla commercializzazione. Proprio nel momento in cui il vino (che vale oltre 100 miliardi di euro per l’economia continentale, 14 per l’Italia) vive una delle peggiori crisi.
In Francia si sono espiantati quasi 30 mila ettari, metà delle cantine è insolvente: nel nostro Paese si è perso in un decennio metà del consumo, oggi è ridotto a 26 litri pro capite all’anno. Ma l’allarme più forte è sull’ortofrutta. L’Italia è leader: il fatturato tra fresco e conservato è di 17 miliardi di cui quasi due terzi dall’export. Il presidente di Fedagripesca Confcooperative Raffaele Drei sostiene: o l’Europa dà il via libera agli agrofarmaci e sospende il Farm to Fork (la «strategia di sostenibilità» del sistema alimentare) oppure saltiamo per aria.
«L’ortofrutta è il comparto più esposto ai cambiamenti climatici» denuncia. «Per salvaguardare gli attuali livelli occorre una chiara inversione di tendenza rispetto al drastico calo delle sostanze attive autorizzate, indispensabili per la difesa delle colture. Tantissima produzione è andata persa».
L’80 per cento delle pere non si coltiva più (siamo passati da 800 mila tonnellate a poco più di 180 mila in otto anni), la produzione di kiwi - un prodotto strategico di cui l’Italia è leader mondiale - si è dimezzata. Secondo Coldiretti, se per la prima volta le nostre esportazioni di fresco hanno raggiunto il record di 6,1 miliardi di euro sono state però superate dalle importazioni pari a 6,4 miliardi.
In quantità, l’import di ortofrutta fresca ha superato i cinque miliardi di chili, mentre l’export è fermo a 3,6 miliardi, in calo rispetto al 2023. Il presidente di Coldiretti Ettore Prandini sottolinea: «Abbiamo raggiunto i 12,5 miliardi di export ortofrutticolo, tra fresco e trasformato, ma il problema è produrre di più. E c’è la necessità di difendersi dalle importazioni per cui non valgono le regole di reciprocità. Nel 2024 si sono avuti 165 allarmi sull’ortofrutta arrivata in Italia (più 61 per cento in un anno). È la conferma che in molti Stati, dall’Africa al Sudamerica fino all’Asia, si usano pesticidi pericolosi e banditi nell’Ue, ma anche in Europa bisogna armonizzare i fitosanitari tra i vari Paesi».
Con il Green deal arrivano in tavola prodotti più scadenti e si strangola la nostra economia: da cinque anni c’è una drastica riduzione delle superfici coltivate (lo rivela Confagricoltura): -23 per cento per le pere, -11 per le pesche, -7 per cento di albicocche. L’ideologia verde di Frans Timmermans e di Ursula von der Leyen agevola prodotti che fanno «dumping» a quelli italiani, con una insostenibile caduta dei prezzi e mettiamo a rischio 300 mila aziende e 440 mila posti di lavoro: il 40 del totale in agricoltura. Una macedonia indigesta condita anche con il pomodoro cinese (ar riva a meno di 20 centesimi al chilo ed è coltivato dagli Uiguri minoranza musulmana schiavizzata nella regione dello Xinjiang): le importazioni sono aumentate del 165 per cento per centomila tonnellate (pari al 15 per cento della produzione nazionale).
Con il recente accordo Mercosur arrivano prodotti da Paesi come il Brasile che ha aumentato del 40 per cento l’uso di pesticidi, mentre l’Italia - lo certifica Areteia - lo ha ridotto del 20 ed è la nazione europea che ne utilizza di meno, con la minore quantità di residui attivi su frutta a verdura nel mondo.
Fatta cento la quantità di chimica che si trova sulla buccia o nelle foglie in Italia, il 65,6 per cento dei prodotti non ha residui, il 33,9 per cento è al di sotto dei limiti di legge e solo lo 0,5 per cento li supera. In Europa va peggio, con il 42,1 per cento di residui sotto il limite, ma il 2,6 per cento di queste sostanze pericolose e, se si guarda a frutta e verdura di importazione, i valori di allarme triplicano. Ce n’è abbastanza per chiedere, come Marco Salvi, presidente di Fruitimprese: «Se non si cambiano le impostazioni su “green”, sostenibilità alimentare e politiche agricole rischiamo di compromettere buona parte delle produzioni italiane, abbiamo i giorni contati».
Con soddisfazione di chi vorrebbe abolire la dieta mediterranea in favore di cibi usciti dal laboratorio.