Ecco l’arte che resiste al terremoto
In Rinascimento marchigiano si scoprono opere tra Quattrocento e Seicento dal patrimonio della regione, recuperate e restaurate dopo il sisma del 2016. Un «pellegrinaggio» sacro attraverso pittori straordinari come Carlo Crivelli e Antonio Vivarini, Pietro Alamanno e Ludovico Trasi.
È arrivata ad Ascoli Piceno - fino al 25 marzo prossimo - e giungerà in seguito a San Severino Marche la mostra Rinascimento marchigiano. Opere d’arte restaurate dai luoghi del sisma, dopo una prima tappa romana che era stata ospitata presso un’istituzione mai tanto opportuna come nella circostanza, il Pio Sodalizio dei Piceni nel complesso di San Salvatore in Lauro. Seguito di un’analoga iniziativa svoltasi qualche anno fa, la bella mostra, curata da Stefano Papetti e Pierluigi Moriconi, presenta una selezione di opere mobili salvate dal terremoto del 2016 che, come è noto, ha causato ingentissimi danni anche al patrimonio storico delle Marche. Testimonianze artistiche che sono state sottoposte a recupero, sotto la supervisione dell’Istituto Centrale di Restauro, dopo il quale si accingono a tornare nei luoghi dove si trovavano prima del sisma. Il Rinascimento a cui allude il titolo della mostra non è da intendere come periodo artistico da cui pure provengono molte delle opere in esposizione, dato che ce ne sono anche di medievali e seicentesche, ma alla rigenerazione di una terra che dal ripristino del patrimonio offeso sta ricavando favorevole linfa per il suo futuro anche immediato, scorgendo in esso la possibilità di una crescita culturale collettiva che potrebbe riversarsi positivamente sulle sorti della civiltà locale. Se a Roma le opere in mostra non nascondevano affatto di essere in trasferta, e si proponevano di far rifulgere altrove qualche bagliore della storia di eccezionale interesse da cui derivano, in rapporto con i fenomeni maggiormente trainanti dell’arte italiana, ad Ascoli recuperano tutta la familiarità con un contesto di origine che i marchigiani dei nostri giorni non hanno difficoltà a riconoscere come uno dei lati rimasti più vivi del loro passato. Il percorso proposto comincia cronologicamente con una serie di crocifissi medievali in legno dipinto, provenienti da Ancona, Matelica e Corridonia (Mc), nei quali la fissità votiva delle iconografie bizantine, mirata a suscitare slancio spirituale, sta conoscendo un processo di graduale occidentalizzazione che si concentra sulla natura fisica del Figlio di Dio, che, da vero uomo comunica con il proprio corpo ad altri uomini. La sezione rinascimentale si apre logicamente con Carlo Crivelli, veneziano che, dopo avere operato in Dalmazia, trova nelle Marche il suo paradiso in terra. Il Secondo trittico di Valle Castellana (1470-72 ca.) contiene in nuce molti dei caratteri manifestati in modo più compiuto nell’ascolano Polittico di Sant’Emidio (1473). Crivelli, erede dello squarcionismo padovano da cui era giunto anche Mantegna, affida a un disegno di eleganza ancora cortese il compito di sbalzare a rilievo le figure entro composizioni in cui l’elemento decorativo, anche quando simbolico e realistico, consegue valore strutturale. Adotta l’aristocratico modello crivelliano, una volta giunto a contatto con l’ambiente ascolano, il pittore di origine austriaca Pietro Alamanno, di cui sono esposti gli scomparti superstiti del Polittico di Montefortino. Qui Crivelli risuona, in special modo, nell’incupita Madonna che lascia libero il Bambino di sdraiarsi succhiandosi un dito, ma tali raffinatezze vengono in parte smentite nella paletta proveniente dalla chiesa di San Salvatore a Cerreto, una Madonna in trono fra Cristo e San Sebastiano con Pietà in cimasa (1485).
Poco sensibile all’esempio di Antonio Vivarini, che nei pannelli residui del Polittico di Corridonia (1462) diffonde i segni di una pittura veneziana ancora in procinto di essere rivoluzionata dal naturalismo di Giovanni Bellini, Lorenzo D’Alessandro, maestro rinascimentale di una delle capitali storiche della pittura marchigiana, San Severino, riesce a trovare un punto di ispirato equilibrio fra l’eleganza decorativa di Crivelli e il senso dello spazio dei toscani nella magnificamente recuperata Madonna con Bambino e Sant’Anna Metterza di Matelica (1485-90 ca.). In essa fra il gruppo mariano e i due aggraziati giovani ai lati, in realtà San Rocco e San Sebastiano nei panni per loro poco consueti di paggi, è tutto un trasmettere di sentimenti soavi che si palesano anche nelle gestualità con cui i ragazzi si muovono attorno al trono come fossero danzatori (bellissimo il particolare del piede avanzato di Sebastiano che sembra volere uscire dalla quarta parete della scena). Fra le acquisizioni scientifiche più rilevanti della mostra la conferma dell’attribuzione che assegna il Polittico di Funti (1517) a un Cola dell’Amatrice che, nell’aprire bottega ad Ascoli, fa propria la lezione, acquisita nel corso del soggiorno romano, nei modi di organizzare la produzione, servendosi largamente, specie quando le commesse erano di minore importanza, di collaboratori a cui affidava la realizzazione delle sue invenzioni. Evidente, in tal caso, la ripresa del modulo della precedente Pala di Folignano, anche se l’asciuttezza atmosferica e le decorazioni antiquarie denunciano la cultura romana di cui Cola si è intriso.
Passiamo al Seicento. Fatto cenno al toscano Cesare Dandini, autore di una misticheggiante Gloria di San Carlo Borromeo proveniente da Ancona (1625-30 ca.), e al locale Ludovico Trasi, fra Sacchi e Maratti (Presentazione al Tempio sempre da Ancona), va spesa qualche parola su Giuseppe Puglia detto il Bastaro. Classicista romano, genero di Antiveduto Gramatica al cui fianco si era mosso il primo Caravaggio, fu attivo nelle Marche, a Fabriano e Visso, oltre che ad Amandola, per la quale dipinge una Madonna con Bambino fra i SS. Maddalena e Francesco (1632 ca.). In queste opere, il Bastaro ci viene incontro come perfetto emulo di Reni, con qualche eco di Simone Cantarini, tenendo di certo conto del grande successo che aveva riscosso l’Annunciazione di Guido a Fano. Difficile, uscendo da mostre del genere, evitare una riflessione ricorrente quando si considera il patrimonio artistico marchigiano, enormemente penalizzato dalle spoliazioni d’epoca napoleonica di cui ha usufruito in particolare la Pinacoteca di Brera, centralizzata sul modello del Louvre: più dei terremoti poterono i musei altrui.