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Aaron Nimzowitsch: il rivoluzionario degli scacchi che sfidò le convenzioni

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In un’epoca in cui gli scacchi erano dominati da principi consolidati e rigidi dogmi, un giovane giocatore di talento, di nome Aaron Nimzowitsch, osò mettere in discussione ogni certezza. Con la sua opera, “Il mio Sistema’”, pubblicata nel 1925, aprì la strada a una nuova era del pensiero scacchistico. È trascorso giusto un secolo dalla pubblicazione del suo libro più famoso che ha segnato una svolta nel modo di concepire la strategia scacchistica.

Chi non conosce la difesa “Nimzoindiana” che maestri e appassionati di tutto il mondo adoperano da decenni contro l’apertura del pedone di Donna? E la c.d. Nimzo-Larsen? Ovvero l’apertura 1) Cf3 seguita da b2-b3, ideata da Nimzowitsch, perfezionata da Bent Larsen e più volte adoperata ai nostri tempi anche da Magnus Carlsen? O ancora la solida e diffusissima difesa Ovest-Indiana? Ebbene, sono sistemi che Nimzowitsch sperimentò e giocò durante tutta la sua vita, incurante delle derisioni, delle invettive e delle sconfitte patite pur di riuscire a perfezionare le sue idee.

I custodi dei dogmi scacchistici dell’epoca le bollavano come stravaganze, il parto di una mente eccentrica. Ma il tempo, giudice implacabile, ha ribaltato il verdetto, elevando le sue idee a fondamenti del gioco moderno.

Aaron Nimzowitsch nacque a Riga in Lettonia nel 1886. Un altro grande genio degli scacchi è nato in quella città molti anni dopo: il suo nome è Michail Tal, soprannominato il mago di Riga. Se Tal è considerato uno dei più grandi giocatori d’attacco della storia, un vulcano di idee combinative che davano luogo a sacrifici immortali, Aaron Nimzowitsch è invece ricordato come l’artefice, assieme a Steinitz, della strategia moderna, un rivoluzionario che ebbe una fede incrollabile nei suoi principi.

Il primo incontro di Nimzowitsch con la magia degli scacchi avvenne all’età di otto anni, grazie a suo padre, un abile giocatore amatoriale. Fu un colpo di fulmine: “Come ricompensa per i miei successi scolastici, mio padre mi mostrò la partita ‘immortale’ di Andersen“, raccontò poi Nimzowitsch, “che compresi e amai profondamente”.

Agli inizi, e fino all’età di vent’anni, Aaron fu considerato un grande giocatore d’attacco, propenso a sacrificare materiale senza badare alla difesa. Il suo gioco, molto rischioso e dispendioso, gli procurava belle vittorie ma anche cocenti sconfitte. Egli ben presto comprese che il suo stile era improvvisato, lacunoso, privo di solide basi. Il punto più basso della sua carriera giunse durante il torneo di Barmen nel 1905 in cui collezionò ben otto sconfitte, un vero record negativo nella sua luminosa carriera: “All’epoca consideravo questa disfatta come una grande tragedia personale. Oggi, invece, sono convinto che questo fallimento sia stato la mia salvezza da una situazione quasi senza speranza”.

Scrive ancora Nimzowitsch: “In assenza di possibilità combinative, mi perdevo completamente. Non avevo direttive posizionali: ad esempio, non mi veniva mai in mente di indebolire le case nere (o bianche) dell’avversario (per poi occuparle) o di prevenire un’irruzione nemica fin dalle radici. Attaccavo con tutte le mie forze, spingevo i pedoni in avanti e preparavo trappole combinative…”

Dopo l’amara esperienza di Barmen, Nimzowitsch si immerse nell’analisi delle sue partite, scoprendo un’amara verità: la sua preparazione nelle aperture era lacunosa, il vero tallone d’Achille (“non conoscevo una difesa contro 1. d4” –egli scrisse). Ironia della sorte, fu proprio questa debolezza a spingerlo a creare una delle difese più complesse contro l’apertura del pedone di donna, con l’inchiodatura alla terza mossa del cavallo in c3, la famosa Indiana di Nimzowitsch, adoperata da tutti i campioni del mondo, da Capablanca a Botvinnik, da Petrosian a Karpov fino ad Anand e Carlsen ai giorni nostri.

Nel frattempo, si era trasferito a Zurigo e si era iscritto all’Università per accontentare suo padre che sperava per lui in un futuro diverso. Ma il grande Aaron aveva già scelto la sua strada. All’età di 19 anni decise di ritirarsi per un anno dalle scene scacchistiche e, con un quaderno di appunti e una sete insaziabile di conoscenza, Nimzowitsch si chiuse nel suo studio, analizzando le partite dei grandi maestri e cercando di comprendere i principi fondamentali del gioco.

Egli così descrive quel periodo denso di studi e di profonde analisi: “Fui intuitivamente colpito dall’idea che esistono elementi strategici che stanno, per così dire, cercando il loro ideologo e legislatore”. Ma non gli bastò studiare i principi del gioco, egli decise di riscriverli: ”Esistono leggi e regole per l’utilizzo sia delle catene sia delle colonne, e io, devo trovarle ad ogni costo!

Dal 1907 in poi i suoi progressi furono continui e il suo gioco migliorò dal punto di vista tattico e strategico al punto che alcuni anni dopo, quando scoppiò la Grande Guerra, egli era già un forte Maestro stimato e temuto da tutti i più quotati giocatori della sua epoca.

Negli anni della prima guerra mondiale le vicende personali di Nimzowitsch restano avvolte da un fitto mistero. Come riuscì a sopravvivere nelle zone di guerra, fuggendo disperato da una città all’altra come profugo? Cosa accadde a quel genio ribelle? Ancora oggi nessuno lo sa con certezza.

Poi, come una fenice che risorge dalle ceneri, Nimzowitsch riapparve a Copenaghen, ove ormai si era stabilito, portando con sé nuove idee e teorie innovative. Era il 1923 quando Xavier Tartakower, parlando del suo ritorno all’età di trentasette anni sulle scene scacchistiche, parlò di lui in un articolo. Lo definì “uno spirito mescolato ad ironia e sarcasmo” e, riguardo ai suoi studi, scrisse: “si tratta di ciò che più sta a cuore a Nimzowitsch, della strategia moderna, della nascita del suo sistema”.

Due anni più tardi Aaron Nimzowitsch pubblicò il suo capolavoro: “Il mio sistema”. Per comprenderne la genesi, occorre ricordare che agli inizi del ‘900 il periodo del romanticismo scacchistico, segnato dal genio di campioni come Andersen, Staunton e Morphy, era ormai da tempo tramontato e nuove leve e nuovi astri nascenti erano apparsi all’orizzonte.

Steinitz, il primo indiscusso campione del mondo, aveva gettato le basi della strategia moderna, ma Nimzowitsch portò la rivoluzione a compimento.

Steinitz aveva dimostrato che i mirabolanti attacchi che avevano reso celebri i grandi del periodo “romantico” erano stati propiziati dalla ingenuità degli avversari i quali accettavano i gambetti e i sacrifici di materiale come una sorta di sfida cavalleresca per poi difendersi con approssimazione oppure contrattaccare disordinatamente. Alcuni brillanti sacrifici si rivelarono, alla luce di un’attenta analisi, del tutto scorretti. Fu così che Steinitz affermò che era giunta l’ora di rafforzare le strutture difensive per fare fronte al gioco combinativo e prevenire i sacrifici seguendo i dettami dell’equilibrio posizionale. La strada per sconfiggere i romantici non poteva che essere, secondo Steinitz, la solidità strategica: ponderare anzitutto le spinte di pedone ed evitare la formazione di case deboli. Egli suggerì di studiare le strutture pedonali, lo sviluppo dei pezzi, il controllo del centro e le tecniche di difesa.

Con il trascorrere degli anni, tuttavia, gli insegnamenti di Steinitz vennero mummificati, diventarono assiomi immutabili a causa dell’ottuso dogmatismo dei suoi seguaci.

Il più strenuo e incrollabile sostenitore di queste rigide tesi fu il medico tedesco e famoso Maestro, Siegbert Tarrasch il quale, con il suo fare autoritario, bollava come eretici coloro che osavano deviare dal sentiero tracciato da Steinitz e definiva le loro idee bizzarre e stravaganti.

Egli giunse al punto di affermare che soltanto alcune aperture e difese fossero corrette e meritevoli di essere insegnate ai giovani allievi.

Tarrasch riteneva, ad esempio, che contro il gambetto di donna fosse corretta una sola difesa, quella che porta il suo nome (3…c5) malgrado il Nero dovesse giocare con un pedone centrale isolato da difendere dagli attacchi del Bianco. E cosa dire delle sue regole pratiche che divennero dei veri e propri dogmi? Egli tuonava con il suo sguardo severo: “sviluppate prima i cavalli e poi gli alfieri!”, oppure enunciava: “il cavallo è più forte dell’alfiere”, e ancora: “non si deve muovere due volte lo stesso pezzo in apertura”, oppure affermava: “la Donna in apertura non va mossa prematuramente” e così via.

Figurarsi lo stupore e lo sgomento di Tarrasch quando si avvide che Nimzowitsch se ne infischiava delle sue enunciazioni e sperimentava nuove rivoluzionarie idee. E così in quegli anni, grazie al fondamentale contributo di Nimzowitsch, si fecero strada difese come 1) d4-Cf6 con lo sviluppo dell’Alfiere di Re in b4 (che per giunta veniva poi cambiato per l’innocuo Cavallo in c3!). Oppure prese piede la difesa ovest-indiana con 3) …b6 e l’Alfiere campochiaro in fianchetto. O ancora 1) e4-Cc6, elaborata e spesso giocata da Nimzowitsch, ritenuta dai seguaci di Tarrasch una vera e propria provocazione. E cosa dire di 1) e4-c5 2) Cf3-Cf6, la c.d. variante Nimzowitsch della difesa Siciliana?

Certamente, non tutte queste difese si rivelarono nel tempo esenti da critiche, ma certo non meritavano derisioni o scomuniche. Tarrasch non riusciva ad accettare l’idea che in apertura il centro non dovesse essere necessariamente occupato dai pedoni, ma poteva essere controllato anche dai pezzi, mentre Nimzowitsch sosteneva che un centro sovraesteso poteva essere successivamente attaccato e demolito come un castello di sabbia, destinato a crollare sotto i colpi di un attacco ben orchestrato.

Pian piano le teorie di Nimzowitsch spianarono la strada ad altri grandi innovatori. Nella prima metà del secolo scorso, altri Maestri lo seguirono: basti pensare a Xavier Tartakover o a Ernst Grunfeld e alla sua difesa contro l’apertura con il pedone di donna, ancora oggi molto in voga, oppure a Richard Reti che elaborò schemi innovativi tutt’ora molto diffusi.

Aaron Nimzowitsch non si limitò a fornire il proprio rivoluzionario contributo allo studio della teoria delle aperture, egli elaborò e mise in pratica un vero e proprio sistema di gioco con il quale intendeva fornire al giocatore prevalentemente “tattico” gli strumenti strategici per perfezionare il mediogioco sulla base di una nuova concezione “filosofica”. Il suo sistema era come un’orchestra, dove ogni pezzo aveva un ruolo preciso e armonico. Vediamo come lo sviluppò.

Il Mio Sistema” si apre con la descrizione degli elementi essenziali che compongono la strategia scacchistica. Eccoli: 1) il centro, 2) la colonna aperta, 3) il gioco nella 7ª e 8ª traversa, 4) il pedone libero, 5) l’inchiodatura, 6) lo scacco di scoperta, 7) il cambio, 8) la catena di pedoni.

Egli analizza a fondo tutti gli elementi fondamentali con esempi e suggestive spiegazioni. Chi non ricorda, ad esempio, la sua descrizione tanto vivida quanto memorabile del pedone libero: “Il pedone passato è un malfattore che deve stare in carcere: provvedimenti miti come il controllo poliziesco non sono sufficienti!” Nasce così l’idea del blocco del pedone libero e del Cavallo quale miglior pezzo bloccatore. Successivamente, partendo delle regole del blocco del pedone libero, elaborò la teoria della catena pedonale.

La seconda parte del libro è dedicata al gioco di posizione e all’elaborazione di concetti per quei tempi rivoluzionari: la profilassi, la superprotezione, la restrizione, l’attacco combinato su entrambe le ali, la debolezza passiva e attiva, la mobilità generale di una massa pedonale, la limitazione della mobilità, il centro come “i Balcani della scacchiera”, concetti supportati da preziosi esempi tratti dalle partite dei più importanti Maestri della sua epoca.

La lettura di questo testo, di una chiarezza e linearità stupefacenti, è in grado ancora oggi di arricchire qualunque scacchista che intenda migliorare il proprio gioco posizionale e si fa apprezzare per la scorrevolezza dello stile. Si tratta di un vero classico immortale della letteratura scacchistica; non dimentichiamo che il grande Tigran Petrosian perfezionò il proprio stile di gioco studiando a fondo quest’opera. Il lavoro di Nimzowitsch era fondato su profonde riflessioni e continui esperimenti pratici che terminavano a volte con vittorie esaltanti, altre volte con cocenti sconfitte.

Ecco un magnifico esempio del suo stile di gioco, la “partita immortale dello zugzwang”, giocata contro Samisch a Copenaghen nel 1923 e che può considerarsi il trionfo dei principi successivamente esposti nel “sistema” (gioco combinato su entrambe le ali, blocco, restrizione, sacrificio posizionale e zugzwang finale).

È corretto definire Nimzowitsch un esponente della scuola “ipermoderna”? Il termine fu coniato dal polacco naturalizzato francese Xavier Tartakover, un altro grande dell’epoca, un arguto spirito innovatore. Nimzowitsch mostrò subito di condividerne la visione. Egli rivendicò nella sua raccolta di partite “La pratica del mio sistema”, l’inserimento a pieno titolo delle sue teorie, già formulate nel 1925, nell’ambito della “scuola ipermoderna”.

Richard Reti fu un altro importante esponente di questa scuola (a lui si deve il famoso libro “Nuove idee negli scacchi”) e anche l’ungherese Gyula Breyer vi aderì.

Il celebre Alexander Alekhine, che fu a lungo campione del mondo, pur non partecipando attivamente alle discussioni teoriche dell’epoca, mostrò di apprezzare i principi ipermoderni e fornì un contributo rilevante alla nuova scuola di pensiero grazie alla difesa che porta il suo nome (e2-e4–Cg8-f6), un esempio brillante di ipermodernismo, la scuola che enfatizzava il controllo del centro con i pezzi anziché con i pedoni, lasciando che l’avversario lo occupasse per poi attaccarlo.

Oggi le idee di Nimzowitsch espresse ne “Il mio Sistema” sono comunemente accettate da tutti gli studiosi, sebbene il testo possa apparire, a un secolo di distanza, meno rivoluzionario di un tempo.

Per comprendere l’importanza de “Il mio Sistema” nell’evoluzione degli scacchi moderni, basta pensare agli studi di Nimzowitsch sul “piccolo ma solido centro” (le “posizioni di tipo Paulsen” come le definisce l’Autore) da cui nacquero, verso la fine degli anni ’70 del ‘900 i sistemi “a riccio” nella difesa Siciliana e nell’apertura inglese. In questi schemi di apertura uno dei due colori accetta di giocare con uno spazio ristretto sulla terza o sesta traversa e un piccolo centro di pedoni arretrato. Queste strutture, come teorizzava Nimzowitsch già molti anni prima, hanno dimostrato di avere una carica dinamica molto elevata. Se il difensore, dopo tanta paziente attesa, riesce ad effettuare le opportune spinte di rottura e di liberazione, d’improvviso la posizione si espande pericolosamente, come un riccio che sfodera i suoi aculei, per poi esplodere in un contrattacco devastante.

Un altro clamoroso esempio della validità e attualità delle teorie di Nimzowitch? Tutti ricorderanno la straordinaria vittoria di Bobby Fischer contro Boris Spassky nella 5ª partita del match del 1972 utilizzando la difesa Nimzo-Indiana: dopo il cambio dell’alfiere camposcuro con il Cavallo bianco in c3, si erige il “muro” sulle case nere con le successive spinte in c5 ed e5. Oggi chiamiamo questo schema il “Muro di Huebner”, dal nome di un altro grande campione che ha adottato le teorie di Aaron Nimzowitch, ma non dobbiamo dimenticare chi per primo ha teorizzato e sperimentato, da vero pioniere, questo sistema di gioco.

Un altro esempio pratico? Ancora oggi, chi si accinge a studiare la difesa Francese, non può prescindere dallo studio delle catene pedonali e dalle partite di Nimzowitsch il quale adottò la variante di spinta 3) e4-e5 suscitando l’indignazione di Tarrasch, secondo il quale l’unico metodo corretto era giocare alla terza mossa 3) Cb-d2 (variante che porta il suo nome).

A proposito di Tarrasch, Nimzowitsch racconta che, quando era ancora un giovane scacchista, nel corso di una partita amichevole contro di lui, avvenne un episodio che lo ferì profondamente. Egli così lo descrive: “Dopo la decima mossa, Tarrasch, incrociando le braccia sul petto, pronunciò improvvisamente questa frase: “Mai in vita mia, dopo la decima mossa, mi sono trovato in una posizione di vantaggio così evidente come in questo caso. La partita, tuttavia, si concluse con una patta. Ma l’“offesa” che mi fu inflitta davanti a tutti i presenti non riuscii a perdonarla a Tarrasch per molto tempo”.

Come una spina nel fianco, quell’offesa lo tormentò per anni, alimentando il suo desiderio di rivalsa: “A tutti i miei lettori posso dare un consiglio utile: se volete ottenere risultati, sceglietevi un eterno nemico e cercate di punirlo facendolo cadere dal suo piedistallo”.

Il suo carattere, con il passare del tempo divenne ancora più instabile e bizzoso. Soleva dire spesso nei suoi scritti che l’innato nervosismo e la sua debole costituzione fisica erano stati di ostacolo alla carriera e allo sviluppo della sua creatività.

Tutto di lui contribuiva a creare un personaggio unico e controverso. Egli divenne l’emblema dello scacchista stravagante, misogino, asociale. Fu definito un cupo pessimista, degno seguace di Arthur Schopenhauer.

Quando detestava un avversario, per aver ricevuto da lui qualche critica di troppo o per altre personali ragioni, non nascondeva il suo astio. Una volta giunse con forte ritardo all’inizio di una partita contro Walther John; invece di sedersi, iniziò ostentatamente a girare la sala con passo lento e lo sguardo distratto e così trascorse altro tempo, senza effettuare la sua mossa, intento ad ammirare i dipinti appesi alle pareti tra lo stupore generale e l’indignazione del suo avversario.

Detestava il fumo e così molti suoi avversari, consapevoli della sua idiosincrasia, si astenevano quando giocavano contro di lui. Ebbene, durante una partita contro Vidmar, si alzò bruscamente dal tavolo e chiese all’arbitro di chiedere al suo avversario di non fumare. Al che l’arbitro, sbigottito, gli fece notare che Vidmar non stava affatto fumando. “Ma minaccia di farlo!” -gli rispose Nimzowitsch- “e la minaccia è notoriamente più forte dell’esecuzione!” esclamò trovando il modo di enunciare una delle sue famose teorie scacchistiche.

Contro Tarrasch ingaggiò una vera e propria battaglia ideologica a colpi di articoli, recensioni e comunicati. Tarrasch scriveva che Nimzowitsch aveva una spiccata preferenza per le aperture peggiori e che il suo gioco era antiestetico, e a volte davvero orribile. Nimzowitsch giunse a sfidare l’avversario a un duello scacchistico in cui avrebbe giocato con il N. con una posta in palio a discrezione del suo avversario. Un atto di sfida non raccolto che dimostrava la sua determinazione a difendere strenuamente le proprie convinzioni.

Nel 1913 pubblicò un articolo su una importante rivista scacchistica viennese in cui demolì il Maestro tedesco con critiche ed epiteti molto polemici. Lo definì “arido teorico” di una “rigidità inesorabile; non dico coerenza poiché non è la stessa cosa. Rigidità è apparente coerenza, se si vuole è coerenza per gli occhi, non per lo spirito indagatore”.

Aaron Nimzowitsch, oltre a essere ricordato come un grande teorico, è stato anche un magnifico giocatore, tra i più forti della sua epoca. Nonostante non raggiunse mai le vette dei suoi più grandi avversari come Alekhine, Capablanca o Rubinstein, i suoi trionfi, che lo consacrarono tra i più grandi del suo tempo, restano ancora oggi memorabili.

La sua carriera fu costellata di successi: fu primo a pari merito con il grande Alekhine a San Pietroburgo nel 1914, primo assoluto a Copenaghen nel 1923 e nel 1924. Primo a pari merito con Rubinstein a Marienbad nel 1925, primo a Dresda davanti d Alekhine nel 1926, primo ad Hannover davanti a Rubinstein. Nel 1927 fu primo a Niendorf e Londra (assieme a Tartakower), primo a Berlino nel 1928.

Il suo più grande trionfo avvenne nel grande torneo di Karlsbad del 1929 dove fu primo assoluto davanti a Capablanca, Spielmann e Rubinstein. Poi iniziò il suo declino, la presenza nei tornei più importanti diminuì e negli anni ’30, pur giocando ancora alcune splendide partite, non riuscì a prevalere contro gli avversari più quotati. Per giunta, Alekhine, con la sua influenza e il suo potere, orchestrò un vero e proprio ostracismo nei suoi confronti, escludendo Nimzowitsch, che temeva come avversario e teorico di fama, dai tornei più prestigiosi.

Morì, colpito da una polmonite nel 1935 a Copenaghen, a soli 49 anni. Il suo lavoro, frutto di una mente geniale e di una passione inesauribile, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia degli scacchi.

Alla sua morte scrisse di lui Albert Becker: ”Nell’età migliore ci ha lasciati per sempre. Ha compiuto la sua opera. Le disgrazie hanno contribuito molto a rendergli difficile la vita. Non fu di natura socievole, ci si scandalizzò del suo contegno, altri derisero le sue stranezze. Ma egli dovette essere così come ora lo conosciamo. Chi, lottando per l’idea, ha subito tante malvagità, dovette diventare ombroso e stravagante, benché fosse capace di ripagare con riconoscenza e devozione coloro che gli erano amici. La sua morte lo libera da tutto ciò. Il ricordo di un pioniere consumato da un fuoco interiore rimane indietro. La sua opera rimarrà viva finché rimarrà viva la nostra antichissima arte: per sempre!

Vogliamo in conclusione ricordare il grande Aaron Nimzowitsch riportando una delle sue più belle partite.

Fu giocata contro Akiba Rubinstein a Dresda nel 1926; è una gemma scacchistica immortale, famosa per la profonda concezione strategica del mediogioco e per una straordinaria manovra posizionale di cavallo iniziata con la mossa 18 Cg3-h1, tipica dello stile ipermoderno di Nimzowitsch. Siegbert Tarrasch nel vederla avrà provato una sensazione di sgomento; eppure, il cavallo, inizialmente confinato in un angolo della scacchiera, sta per iniziare il suo lungo, vittorioso viaggio verso la meta.




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