Tassi d’interesse, perché Federal Reserve e Bce scelgono la prudenza
Al ministero dell’Economia italiano c’è delusione per il mancato taglio dei tassi d’interesse negli Usa deciso qualche giorno fa dalla Federal Reserve.
Il disappunto è comprensibile: qual che fa la Fed condiziona la Bce a tenere una rotta simile senza farsi influenzare dalle lamentele di alcuni Paesi dell’Eurozona, tra cui l’Italia.
Pertanto il problema per il Belpaese è che, con un’economia che cresce dello 0,6% circa (recenti stime Bankitalia), un sollievo al macigno del debito potrebbe venire solo dalla riduzione del “peso” degli interessi.
L’Eurotower, invece, tende a stare in linea con Washington, per evitare di svalutare l’euro sul dollaro e importare inflazione. Ne sapremo di più giovedì 11 aprile, data della prossima riunione a Francoforte.
La domanda è: se l’inflazione rallenta, perché l’Autorità monetaria Usa rimanda i tagli dei tassi?
La situazione, innanzitutto. A parte la Banca nazionale della Svizzera, che ha abbassato i tassi (però opera con una moneta che ha una costante tendenza a rivalutarsi), le altre Banche centrali dei punti di vertice del capitalismo occidentale faticano a togliere il piede dal freno.
Persino la Banca del Giappone, dopo anni di tassi negativi, ha deciso la scorsa settimana di cambiare registro. Lo fa con prudenza, in quanto uscire dalle conseguenze della “moneta facile” e a costo negativo (paga chi presta) è complicato. Ma lo fa.
Unendo i punti, si ha l’idea di una comune linea di prudenza delle principali banche centrali. Vale pure per la Fed, che governa la moneta regina del sistema.
Se pochi mesi fa, a dicembre 2023, venivano previsto sei tagli nel corso del 2024, ora l’ipotesi è ridotta a tre, collocati nella seconda metà dell’anno.
Così il taglio dei tassi resta nel limbo. Stando a un ragionamento “classico”, a rendere cauta la Fed, e dunque le consorelle, è la crescita dell’occupazione (forte nel settore pubblico) e dei salari negli Usa. Significa potenziale inflazione da domanda, che richiama la Fed alla prudenza.
Logico in Usa, dove la spinta dei prezzi è da eccesso di domanda: ovvero da deficit fiscale federale.
Viceversa, in Eurozona l’inflazione è ancora da shock da offerta di materie prime energetiche.
Conseguentemente in ambito Ue l’effetto “coperta corta” del freno monetario è più forte. Abbassare la guardia esporrebbe al rischio di avvitarsi nella corsa dei prezzi. In Italia abbiamo in materia esperienze negative pre-euro.
Cos’altro spiega la prudenza di Fed e Bce? Forse che, fuori dagli schemi di politica monetaria, il barometro geopolitico segna tempesta. La novità è che tutta questa incertezza, oltre a frenare le banche centrali sul taglio dei tassi, le spinge a un vero e proprio cambio di “filosofia monetaria”: dall’idea di guidare i mercati giocando d’anticipo, annunciando le proprie scelte nella buona certezza di poter condizionare l’economia, ora ripiegano a un atteggiamento opposto. Ossia decidono guardando lo “specchietto retrovisore” (la Bce sono mesi che lo ripete), basandosi sui dati in essere e sperando di prenderci. Difficile criticarle, in un mondo dove si naviga a vista.
Le “spie rosse” sul prezzo del petrolio annunciano possibile inflazione. Reggeranno, le banche centrali, alla pressione politica che, specie Oltreatlantico, si farà sentire all’avvicinarsi delle elezioni presidenziali? Molto dipenderà dalla “voce” delle armi. —