Addio rovescio a una mano: perduto ma non dimenticato
Quando Stefanos Tsitsipas ne ha affondato uno a rete. O forse quando Dominic Thiem ha deciso che avrebbe smesso di tirarlo nel silenzioso sonno della città che non dorme mai. Quando Richard Gasquet è diventato un puntino lontano e quando Roger Federer e Stan Wawrinka l’hanno donato in pasto al Dio del tempo, svizzeri e puntuali. Quando Grigor Dimitrov, il divino bamboccione, lo aspetteremo ancora, così come aspetteremo Shapovalov, Musetti, insomma chiunque osi staccare una mano dalla racchetta e mentre colpisce rivolgerci dal campo un cenno di saluto.
È allora, quando a piccole tappe tutto questo è accaduto, che il rovescio a una mano è scomparso. Oggi si può affermare che di quel colpo, che nessun bambino sa giocare quando mette piede in un campo da tennis, si siano perse le tracce. Il perché sia scomparso, il perché a fine anno, quando si fanno i conti, tutti li facevano a due mani al gran galà di Torino, lo lascio dire a quelli bravi. Saranno state le racchette, le palline o le superfici, il cambiamento climatico, o una scelta woke per non discriminare la seconda mano, poco conta. Diremo allora, soltanto, che come fece Fosbury, qualcuno si è messo a saltare in alto guardando il cielo, e che da allora nessuno si è voltato più faccia a terra.
Sempre che sia scomparso, per carità: c’è un mondo oltre la top ten fatto anche di giocatori di club che giocano con la seconda pallina in mano ed esibiscono discutibili tecniche monomani prossime alla caccia alle zanzare. Sono tennis anche loro. Ma là in alto, lassù dove osano le aquile, è roba molto seria quando si deve fare selezione all’ingresso.
C’è aria di nostalgia, questo è evidente. Forse generazionale, forse di testimonianza. Non possiamo negare che, data in pasto al mondo la statistica, si sia andati tristi verso il funerale. Non ci si è limitati a evidenziare un numero o un ennesimo record. Quando alle Finals di Torino non si è qualificato nessuno che sapesse giocare il rovescio a una mano, ci siamo un po’ guardati intorno, sospesi tra il navigato “lo sapevo”, e il timoroso “e ora che si fa?”.
Alcuni sostengono che l’eclissi del gesto rappresenti, per il nostro sport, una sconfitta. Gli esteti, gli appassionati dei “gesti bianchi” che Gianni Clerici ha descritto, non contemplano altro che l’uso di una sola mano, mentre con l’altra si può reggere in mano una tazza di te’. Forse è tutto un mondo che sta mancando, non solo quello dei gesti bianchi e la latitanza del rovescio a una mano è soltanto una cartina tornasole.
Sparisce un colpo e con esso è come se sparissero tutti quelli che l’hanno brandeggiato. I giocatori moderni lo rinnegano e d’improvviso è come se stessero rinnegando ogni giocatore, e tutto il connesso bagaglio di talento, che ne ha fatto buon uso in passato. Perché è chiara nella vulgata l’associazione tra rovescio a una mano e giocatore di talento. Il legame appare inscindibile, ma in realtà non è così esatto.
Thomas Muster, un sol braccio mancino, non si è mai emancipato dall’epiteto di “arrotino”. Guillermo Vilas giocava a una mano senza che fosse tra le più fatate e fa strano pensare che ci siano stati in campo, contemporaneamente, Ivan Lendl e John McEnroe, all’epoca non due tennisti bensì due mondi separati, eppure uniti dall’uso di un solo arto per colpire la palla. Si è sempre associato il rovescio a una mano al giocatore di estro, al creativo. Il citato McEnroe fa compagnia ai vari Leconte, Cash, Nastase, agli Edberg, Becker e Sampras, e si dice che siccome giocavano a una mano, erano giocatori di maggior talento.
Insomma “post hoc ergo propter hoc”. Ed invece, se una cosa segue l’altra non è detto che la prima ne sia una causa. Invertiamo l’ordine dei fattori. Si dice “ha talento perché gioca ad una mano”, quando invece si dovrebbe dire “ha talento perché vince”. Abbiamo associato il rovescio ad una mano al talento, perché un tempo quasi tutti giocavano ad una mano e perché per vincere non ti servivano decenni in palestra, i fisioterapisti e le loro dubbie pomate, lo psicologo ogni sera al telefono: dovevi essere più bravo, dovevi avere più talento. Non era la mano sinistra in tasca a fare la differenza: in un mondo di giocatori ad una mano, spesso prevalevano semplicemente i più bravi.
In fondo non è difficile trovarli, i bimani associabili a quelli già citati. Facciamo un rapido elenco: Marat Safin, Marcelo Rios, Goran Ivanisevic, erano artisti bimani, capaci di dipingere tele incantate e di incendiarle un istante dopo perché l’arte non si crea, si distrugge. Oggi esiste l’astrattista Alexander Bublik ed è ormai esistito Nick Kyrgios, mentre Alexander Dolgopolov ha ben poco da creare sul fronte ucraino. E se di estro a tre mani parliamo, in questi tempi di ministeri del Made in Italy e della Sovranità tennistica mi gioco senza alcuna paura la carta Fognini signor Fabio, da Arma di Taggia.
Insomma: il rovescio a una mano, che qui si rimpiange, non è di per sé indice di maggior talento. Anche se sul concetto di talento si allestisse un Concilio di Nicea per metterci d’accordo, esso di certo non si misurerebbe col numero delle mani.
Ricordo che il mio, di rovescio, quando venne al mondo fu semplicemente un disastro. Dopo anni passati a fare rimbalzare la pallina contro un muro, sempre colpendo col fidato dritto, un mondo inclinato a destra, arrivare su di un campo da tennis e scoprire che c’era un altro mondo sul lato sinistro mi disorientò. La scoperta mi costrinse a sperimentare varie forme di violenza contro il braccio, una serie di gesti che mi parvero contro natura e contro logica. Qualcosa da disperarsi, da cercare di giocare il dritto con la sinistra o di darla vinta all’avversario ogni volta che la palla finiva di là, dal lato del diavolo.
Dopo la corsetta e gli esercizi con gli ostacoli, quella voce che annunciava “facciamo un poco di rovescio”, suonava come mia madre che brandeggiando la cucchiara annunciava le verdure.
Il mio maestro, che in quel frangente si guadagnava i soldi meglio meritati del suo mestiere, cercava di insegnarmi il cambio di impugnatura così, con il polso che faceva salire il dorso della mano. Usava questa allegoria, il mio maestro, e chissà se l’aveva appresa negli anni di formazione o se era una cosa indigena di noi napoletani, così avvezzi alla scena: “Muovi la mano come se stessi accelerando col motorino”.
Del resto a quell’imberbe età qualche coetaneo già sfidava codice della strada e buon senso, impennando su vesparelle e Ciao truccati, guadagnandosi persino timidi scampoli della mia proibita ammirazione. Io, di protettiva famiglia, non ero mai salito su quei mezzi a motore, per me più prossimi a Satana che alle ragazze che ci salivano dietro. Dunque, non sapevo bene cosa dovessi accelerare: mi piaceva prendermi il mio tempo, crescere piano. Quel gesto che dava gas ed evocava il cambio di impugnatura lo ritenevo qualcosa per arditi.
Il rovescio a una mano può non significare maggior talento. Ma che nasconda in sé il significato di una sfida, questo sì, questo non si può negare. L’articolazione, da quel lato, è limitata e meno mobile. I muscoli che la governano sono meno forti. Eppure non ci si può arrendere e darla vinta quando la palla va di là. Chi gioca il rovescio a due mani ha la forza di due braccia, ha la mobilità di un polso in più che da quel lato è fatto bene. Per questo colui che colpendo ad una mano lascia fermo l’avversario, colpisce con lo schiaffo più sprezzante, il man rovescio, quello che un secolo fa imponeva di risposta il duello.
Che ci sia un legame invisibile tra gli arditi che impennavano senza casco e coloro i quali si ostinano a tenere una mano disoccupata, mi pare innegabile. Nel folle equilibrio di millimetri che è il nostro sport, sui fili di rasoio che decidono se una palla starà dentro o andrà fuori, colui che colpisce sul lato debole a una mano è ancora un passo oltre. È il lanciatore di coltelli, che dopo essersi già preso i suoi bravi applausi al circo, ad un certo punto mette la bella contro la tavola e cala la benda sugli occhi.
Non c’è la guida sicura della seconda mano, quella che da sola non saprebbe giocare a tennis, ma che, come noi che ne scriviamo, pur pretende di insegnarlo. Del resto, che senso ha giocare un colpo sapendo che esso è un handicap. Perché, rubando per un istante il mestiere ai dotti, medici e sapienti, non c’è molto da fare: se oggi stacchi una mano dal rovescio le stacchi entrambe da tanti trofei.
Se li intervisti, i pochi che oggi giocano ad una mano ti raccontano la storia del bambino ribelle, sempre la stessa: quella del bambino che impennava sul “cinquantino” e non dava retta al maestro perché il suo gusto così gli diceva di fare. Se nei paraggi poi, ci sono i loro allenatori di infanzia, li riconosci perché sono quelli che alzano lo sguardo al cielo. E mentre ti spiegano perché il loro allievo non giochi a due mani, quello sta in mezzo al campo e si diverte.
Talento no. Bellezza forse, giacché non esiste parametro più soggettivo. Ma coraggio, quello sì. Perché chi gioca a una mano ama di più le cose difficili. E se il talento e la bellezza mutano e muteranno ancora, il coraggio lo troverai sempre alla stessa pagina del vocabolario.
Così accadde un giorno che una palla mi fu lanciata sul lato sinistro del campo, ed io pensai a quanto fosse distante da me, a quanta strada dovessi ancora fare per colpirla, perché ad una mano, se i piedi non glieli piazzi dove si deve, quella vola nel campo a fianco. Avrei potuto lasciarla andare, trasformare la partita in una sessione speciale di palla avvelenata. Ma le gambe di cui disponevo da ragazzo viaggiavano da sole. Animato dall’istinto del cane da riporto, le gambe risposero al richiamo. Ma il dorso del mio polso, questa follia darwiniana, mi implorava invece di non farlo, che dai motorini si casca e ci si fa male, che poi inizi così, prendi il coraggio a una mano e finisce che corri il rischio di crescere.
E allora, quella volta che lui nacque davvero, rimasi sordo dinanzi agli appelli del grillo parlante delle abitudini. Arrivai all’appuntamento: il braccio si raccolse, la spalla si incassò per un istante e in quel momento il cinquantino impennò, senza preavviso e senza casco, il rumore acuto e stridulo dello sbertucciare del motore, tra gli sguardi di chi ti giudica un folle ma di notte si sveglia sognando la tua follia. E da lì non c’è più ritorno, devi accelerare ancora, è un volo, perché ogni esitazione ti schianterebbe al suolo. Infine il braccio si aprì, dal bozzolo uscì la millesima farfalla di quegli anni, si schiuse il colpo e assaporai il mio coraggio.
Guardatemi tutti ora, viaggiando nel tempo. Giudicatelo anche voi quel coraggio, mentre la racchetta si allontana dal mio corpo e si spinge lontano, quasi a sparire. La racchetta non c’è più, siamo rimasti soltanto io ed il mio colpo ormai perduto e perdente. Forse, allora, è davvero un volo, con un’ala soltanto distesa, che espone a voi tutti il mio petto aperto. Se avessi avuto una seconda mano attaccata a quell’arnese non l’avreste veduto. Fa niente che la palla sbatta in rete o finisca in mezzo a delle linee, perché la mia di linea era oramai tracciata. Avevo fatto la mia scelta, e non me ne sono ancora pentito. Ho scelto il rovescio ad una mano, il gesto dell’eroe romantico e sconfitto che espone il petto ai dardi del nemico. Perché è quello che il rovescio a una mano mi porterà in dono: mostrerà il mio coraggio, spalancherà il mio petto e quello che contiene, ed è lì, in quella confusione, che tu vedrai il mio cuore.