Andrey contro Rublev. Un percorso in salita e il peggior inizio di stagione dal 2016
Non è mai stato facile essere Andrey Rublev. Nemmeno quando quel dritto simil-sentenza, il suo marchio di fabbrica, sembrava potesse tagliare a fette il tempo, lo spazio, le speranze degli avversari. No, non è mai stato facile essere Andrey Rublev. Non lo era allora, quando occupava il quinto gradino del ranking mondiale (appena dodici mesi fa, dopo il titolo conquistato ad Hong Kong e un buon percorso nell’Australian Open) e non lo è oggi, col suo peggior inizio di stagione dal 2016. Sì, insomma, il tennista di Mosca si è smarrito e anche in quel di Montpellier (dov’era testa di serie numero 1) si è dovuto arrendere a un avversario (lo statunitense Kovacevic) di indiscutibile caratura, certo, ma che non rappresentava un ostacolo così insormontabile.
E allora, le radici dell’ombra scura che attanaglia l’atleta moscovita, probabilmente, vanno ricercate tra i meandri impervi delle sue insicurezze e negli angoli più spigolosi e reconditi dei momenti difficili attraversati in passato. Del suo malessere, del resto, Rublev ne aveva già parlato pochi mesi or sono, nel corso di una (bella) intervista rilasciata al quotidiano britannico “The Guardian”. “È stato il momento peggiore della mia vita, prendevo pastiglie contro la depressione e non mi erano affatto d’aiuto. Ma il tennis non c’entrava niente. Niente per me aveva più senso. La mia testa era affollata di pensieri che mi stavano uccidendo, era una situazione che non riuscivo più a gestire…“.
Il tennis, si sa, oltre a essere lo sport di David Foster Wallace, è anche lo sport del diavolo, e gli imprevisti sono sempre lì, ben oltre la rete e il campo da gioco. Come una sorta di mantello invisibile pronto a coprirti di vuoto quando meno te lo aspetti. Quello stesso vuoto che – almeno per un attimo – deve aver provato Andrey quando è stato costretto a salutare anzitempo il cemento del sud della Francia o quello più blasonato del primo Slam dell’anno. Già, perché in barba a una completezza tecnica che (forse) non è mai arrivata, il primo avversario di Rublev è sempre stato Rublev stesso. Inutile, dunque, sottolinearne gli atteggiamenti discutibili perpetuati nelle scorse stagioni. Le dichiarazioni di cui sopra hanno certificato quel che già s’intuiva. Purtroppo. Il vero punto di domanda, invece, dovrebbe il seguente: come se ne esce da questa crisi tecnica e di risultati?
Il 500 di Rotterdam rappresenta la prossima chiamata alle armi per un atleta che sembra aver mitigato – almeno un po’ – gli istinti più bellicosi (verso sé stesso, ça va sans dire), ma che allo stesso tempo sembra aver smarrito, quasi definitivamente, quella freschezza atletica, quella garra e quella velocità che lo avevano reso uno dei tennisti-top del circuito. Alcune sconfitte brucianti (dall’argentino Comesana al sunnominato Kovacevic) devono averne scalfito le certezze. Epperò, se vuole restare ancorato alle prime dieci posizioni del ranking mondiale e provare a risalire la china di un percorso che – al momento – non lo vede più come un protagonista affidabile sul proscenio tennistico mondiale, c’è bisogno di ritrovare anche un po’ di quella verve che nel 2023 lo aveva trascinato alla vittoria del suo primo Masters 1000 in carriera (Montecarlo).
Il tennista russo, a un certo punto, in una sorta di richiamo Pasoliniano, dovrà immergersi in un’autoriflessione del tipo: qual è la vera gloria, quella che fa battere i cuori o quella che fa battere le mani? Ritornare agli atteggiamenti istintivi (con tutti gli oneri e gli onori), oppure placarli col rischio di veder venire meno anche i risultati sul campo? Sembra un azzardo, ma la soluzione alla crisi attuale potrebbe risiedere proprio nella risposta che verrà fuori dal suddetto quesito. Una cosa è certa: l’ex numero cinque del mondo è oramai abituato alle strade in salita. Sì, perché non è mai stato facile essere Andrey Rublev.