Giocare a tennis a New York, l’esperienza di Andrea Albiero [INTERVISTA ESCLUSIVA]
Giorni fa, girovagando su Instagram, ci siamo casualmente imbattuti nel messaggio di saluto che Andrea Albiero dedicava ai compagni della squadra e a tutto lo staff della Adelphi University, coi quali aveva appena terminato i primi sei mesi della sua esperienza in questo College tra i più antichi (fondato nel 1896) e prestigiosi di tutti gli Stati Uniti. Un messaggio così sentito ed emotivamente partecipato che ci siamo incuriositi. Ne è nata questa intervista.
Buongiorno Andrea, ti chiamo mentre sto guardando Sinner al suo rientro agonistico al Foro Italico. A proposito cosa si dice lì di tutta la vicenda del n.1 del mondo?
In realtà non è che se ne parli tantissimo e non ho mai sentito nessuno fare un solo cenno al caso Clostebol. Avranno cose più interessanti da fare (ride, ndr).
Immagino di sì. Ti chiamo innanzitutto perché mi piacciono moltissimo le storie di College e poi perché il tuo messaggio mi ha colpito. Presentati ai nostri lettori.
Ho 21 anni, sono di Vicenza e sono alto 198 cm, cosa che ha sempre dato un’impronta forte al mio tennis che è estremamente aggressivo, fondamentalmente tutto impostato sul serve and volley. Appena posso vado a rete, grazie anche ad una discreta velocità di piedi. E considerando l’altezza penso che questa sia una delle mie qualità principali, ed è un aspetto su cui ho sempre lavorato tanto con tutti i miei preparatori atletici. Purtroppo queste caratteristiche hanno influito negativamente sui miei risultati a livello giovanile perché andavo a rete anche sulla seconda di servizio senza preoccuparmi troppo delle conseguenze. Così trovavo ragazzini di 11/12 anni che mi massacravano di pallonetti. Sono tesserato al Palladio 98 di Vicenza con cui gioco il campionato di B2. Anzi diciamo che giocherei perché al mio ritorno a casa il campionato sarà quasi finito.
Ma in realtà con loro mi sono allenato poco perché sono cresciuto alla ‘Rotonda Sporting Club’, tenendo successivamente come base il Tennis Club Pineta’ di Verona, dove c’è coach Marco Girardini. Poi mi sono allenato più di anno, proprio prima di partire, a Voghera all’Oltrepò Tennis Academy. La mia carriera giovanile, come ti dicevo, è stata sempre vissuta un po’ nell’ombra: pochi tornei e quasi sempre vicino casa anche perché nessuno sapeva esattamente cosa fare con questo ragazzino sempre attaccato alla rete. Poi purtroppo non appena avevano cominciato ad arrivare i primi risultati, attorno ai 17 anni, mi sono gravemente infortunato alla schiena. Un problema che mi ha costretto a stare fermo per 15 mesi. E quando dico stare fermo non è un modo di dire perché ero praticamente bloccato a letto.
Un bel guaio.
Certo, anche perché ti confesso che fin dal primo anno delle superiori andare al College era il mio sogno e questo infortunio era un bel problema visto che, tra le altre cose, aveva azzerato la mia classifica. Da qui è nata la mia esperienza a Voghera: un anno e mezzo di allenamento intensivo per poter sognare di nuovo l’America.
Nel frattempo hai giocato qualche ITF?
No, non ne ho mai fatti anche se mi sarebbe piaciuto ma, come ti dicevo, con la classifica che mi ritrovavo altro che qualificazioni (ride, ndr). Forse ci riuscirò la prossima estate.
A proposito quando torni in Italia?
Dovrei tornare la prossima settimana e a fine agosto comincerà la nuova stagione universitaria.
Intanto quella appena finita è andata molto bene, no?
Sì, abbiamo vinto la nostra Conference, la NE10, e poi siamo stati eliminati nella finale play off per l’accesso ai Nazionali dal Queens College che è un’ottima squadra tanto che è in top 30 nel ranking della Division 2.
Il tuo College si trova a Long Island?
Per la precisione a Garden City, il quartiere di fianco al Queens, ad una quarantina di km a est di Manhattan.
Senti, ho letto, ma non so se è vero, che all’Università esiste una linea di abbigliamento personalizzata col tuo nome. Racconta.
E’ tutto vero (ride, ndr). L’Università ha creato questa linea di abbigliamento non solo sportivo ma anche felpe e cose casual con il mio nome dietro e le vendono online con un sito che si chiama INFLUENXER. E lì ci sono tutti i vestiti dei giocatori che hanno partecipato.
Ti danno anche una percentuale?
Sì, ma non è che finora sia andata benissimo. L’unica maglietta che hanno venduto è quella che ha comprato mio padre (ride, ndr).
Parlami della tua Università, al di là del campo da tennis.
L’Università è molto buona da un punto di vista accademico e io sono iscritto a Psicologia. Avevo già fatto un anno in un istituto privato in Italia perché se non ti iscrivi subito dopo le superiori devi comunque frequentare un corso universitario nel tuo paese per poterti presentare con lo status di studente. Quando arrivi qua devi in sostanza dimostrare di essere sia atleta che studente. Io ad es. ho un amico in New Jersey che è stato squalificato proprio perché non aveva seguito questo percorso. Così non può giocare e soprattutto deve pagare l’intera retta.
Tu invece hai una borsa di studio?
Una borsa di studio quasi completa. E direi per fortuna perché, sarà per la vicinanza con New York, qui le rette sono davvero altissime. Comunque, nonostante sia molto impegnato, i momenti di svago e divertimento non mancano mai. E adesso mi godo la bella stagione. Pensa che quando sono arrivato c’erano meno 17 e neve dappertutto e io ho esordito con una bella polmonite. Una beffa per uno che odia l’inverno.
Con l’inglese come va?
Abbastanza difficile all’inizio. Non era facile seguire le conversazioni e soprattutto abituarsi agli accenti diversi perché qui gli sportivi sono al 90% internazionali. Adesso però va decisamente meglio.
E comunque hai parlato molto bene la lingua internazionale del tennis visto che hai vinto il premio come Rookie of the Year, pur giocando solo 5 partite. Vuol dire che li hai impressionati molto.
Sì, è andata davvero oltre le aspettative grazie ad un ottimo staff che mi ha aiutato molto.
Sei l’unico italiano?
Sì, e considera che nella squadra su 10 giocatori non c’è nemmeno un americano. Diversi europei tra cui uno spagnolo, un francese, uno svizzero.
Il più forte della squadra chi è?
Sicuramente un ragazzo serbo che si chiama Marko Jovanovic che tra l’altro si sta laureando e quindi l’anno prossimo non ci sarà.
Intraprenderà la carriera da professionista?
Non penso. Una cosa che ho notato è che quasi nessuno prosegue nel tennis e tutti, terminato il periodo di eleggibilità, smettono di giocare per iniziare una carriera lavorativa qui a New York.
I tuoi programmi invece quali sono? Anche se è una cosa ancora abbastanza lontana.
Sicuramente finire il mio periodo universitario. Poi mi piacerebbe tornare in Italia senza fermarmi qui a lavorare o a fare un Master, anche se devo dire che mi trovo benissimo e ogni volta che vado a New York la cosa mi emoziona sempre tantissimo. Vorrei valutare con calma il livello che avrà raggiunto il mio tennis e prendermi un paio d’anni per capire se c’è un posto anche per me nel mondo del professionismo. Infatti non ho mai inteso il College come un binario morto per quanto riguarda il tennis. Molti vengono qui per fare un’importante esperienza di vita e un po’ pensano di dover abbandonare ogni ambizione di carriera. Io non la penso così.
E fai bene perché abbiamo tanti esempi di giocatori che, terminato il loro percorso universitario, hanno poi avuto un’ottima carriera tennistica.
Esatto, poi anche solo il fatto che per come giochi a tennis ti sia riconosciuta una borsa di studio totale è già una grandissima soddisfazione.
I tuoi genitori cosa dicono?
All’inizio quando sono partito non è stato facile anche perché io, a causa anche dell’infortunio che ti dicevo, non ero praticamente mai uscito da Vicenza e Voghera. Per cui sentivo l’urgenza di un’esperienza come questa che potesse arricchire i miei orizzonti. E loro hanno pienamente condiviso questa mia scelta e sono molto contenti di questa mia esperienza.
Cosa fanno nella vita?
Mio padre è professore di psicologia a Padova…quindi capisci molte cose (ride, ndr), mia madre è chef.
Quest’estate in Italia farai qualche torneo?
Sicuramente degli Open, soprattutto per sperimentare in partita tutte le soluzioni su cui lavoriamo con i maestri. E anche perché mi piacerebbe curare un po’ la classifica (attualmente è 2.5). Vorrei fare anche un ITF ma non so se, senza punti ATP, ne avrò la possibilità. Al limite cercherò un torneo sperduto in Africa (ride perché avevamo appena accennato alle esperienze di Matteo Covato, ndr).
Andrea, grazie del tuo tempo e in bocca al lupo per il proseguimento della tua esperienza americana.
Grazie a te per l’opportunità di questa insperata intervista e a tutti i lettori di Ubitennis che spero possano leggerla con piacere.