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La Coppa Davis, il suo fascino e il controsenso del prize money

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L’Italia è di nuovo campione del mondo. A Bologna, davanti a un’arena che sembrava pulsare insieme ai giocatori, gli Azzurri hanno battuto la Spagna 2-0 e conquistato la Coppa Davis 2025, il terzo titolo consecutivo di una generazione che ormai ha trasformato l’eccezione in normalità. Prima il successo di Matteo Berrettini, poi il punto di Flavio Cobolli che ha chiuso tutto, quello della sicurezza, hanno consegnato all’Italia un altro capitolo di storia. Eppure, mentre il tricolore sventola e la festa si accende, i conti raccontano un’altra storia, forse una storia meno euforica, fatta di cifre che scendono anno dopo anno. Perché la Davis, oggi, vale meno. E non in termini di prestigio: vale meno in termini di soldi, in termini di prize money.

Coppa Davis, un titolo pesantissimo e un prize money sempre più leggero

La squadra di Volandri esce da Bologna con un trofeo iconico e un assegno da 2 milioni di dollari. Ma quello stesso assegno, appena un anno fa, sarebbe stato più ricco. Per questa Final Eight, l’ITF ha fissato il montepremi totale a 7 milioni di dollari, un’ulteriore limatura rispetto agli 8,5 milioni del 2024. La curva è chiara: si scende.
Il nuovo schema di distribuzione economica recita:

  • Campioni: 2.000.000 $
  • Finalisti: 1.500.000 $
  • Semifinalisti: 750.000 $
  • Quarti di finale: 500.000 $

Un taglio che pesa, soprattutto guardando ai campioni. Nel 2024 la squadra vincitrice portava a casa 2,678 milioni: oggi siamo quasi 700.000 dollari in meno. Il valore simbolico resta intanto, per l’Italia di sicuro cresce, ma il valore economico no. Quello va in controtendenza; una sorta di piano cartesiano dove all’aumentare dell’impatto emotivo, diminuisce quello economico. 

Una Davis che perde appeal: sponsor in affanno, calendario ingestibile

L’ennesima riduzione del montepremi non è un dettaglio contabile: è un sintomo.
Il format della Davis è da anni bersaglio di critiche, e il sistema fatica a trovare un equilibrio sostenibile. Gli sponsor non rispondono più come un tempo, i broadcaster trattano al ribasso, e soprattutto il calendario ATP, già saturo, lascia alla competizione spazi sempre più angusti. La Davis resta iconica, resta un marchio globale, ma la forza del marchio non basta se il modello economico non regge. Bologna ha regalato una cornice perfetta, ma dietro le quinte la macchina arranca anche perché a mancare sono i top player, sappiamo chi sono e sappiamo perché non sono venuti. È brutto dirlo, forse anche poco romantico, ma la pecunia per definizione non olet e alcuni giocatori possono anche aver voglia di sentire il profumo dei soldi. Nulla di male in questo, ma è giusto prenderne atto.  

Il paradosso di Bologna: il valore sportivo sale, quello economico scende

E allora si crea un paradosso tutto contemporaneo: l’Italia firma un’impresa storica, una delle più grandi nella storia del nostro tennis, ma la Coppa che solleva vale un po’ meno. Nel momento in cui il livello sportivo è ai massimi, il livello economico è ai minimi degli ultimi anni. Poco cambia per gli Azzurri, va detto. Il valore sportivo della vittoria supera qualunque cifra.
Capitan Volandri con Berrettini e i suoi fratelli hanno costruito una dinastia. Tre titoli consecutivi non accadevano dall’epoca della vecchia Davis; è un traguardo enorme, forse irripetibile. Ma la domanda resta, inevitabile: una Davis che paga sempre meno può restare competitiva nel lungo periodo?
Può continuare a convincere i migliori giocatori a sacrificare energie e calendario? La notte di Bologna resterà negli occhi di tutti: la festa, il pubblico, la squadra che rompe il paradigma di corre verso la storia. L’Italia cresce, vince, trascina. La Davis, intanto, cerca di non perdere pezzi. Il trofeo resta intatto e l’emozione pure, nonostante il montepremi: quello no, quello è cambiato, e il rischio è che prima o poi, anche questo dettaglio rischi di presentare il conto.




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