Coppa Davis, il paradosso della passione: troppo criticata eppure molto coinvolgente
A volte basta un attimo per riscrivere la narrazione di un torneo. A Bologna è servito un tiebreak da 32 punti, un ragazzo romano con la maglietta strappata sul petto e più di diecimila persone a vibrare all’unisono. Flavio Cobolli è diventato il simbolo di un torneo che continua a cercare se stesso: 17-15 a Zizou Bergs, braccia al cielo, Italia in finale di Coppa Davis per la terza volta consecutiva.
Proprio da questa scena – raccontata con efficacia dal collega Charlie Eccleshare su The Athletic – si riparte per capire cosa sia oggi la Davis, cosa voglia diventare e perché i giocatori più importanti continuino a chiedere una svolta.
Il momento perfetto in un torneo imperfetto
Cobolli e Bergs, numero 22 e 43 del mondo, per qualche minuto sono stati il centro gravitazionale del tennis globale. Atmosfera da Mondiale, pathos da sport di squadra, identità nazionale che diventa carburante emotivo.
Quello che la Davis può ancora offrire quando il contesto la sostiene, ma che troppo spesso non riesce a garantire.
Ed è qui che si apre il grande paradosso: il torneo più antico del tennis a squadre, nato nel 1900 e sempre celebrato come il “Mondiale del tennis”, oggi soffre proprio perché si gioca troppo. O almeno, troppo spesso.
Carlos Alcaraz, Jannik Sinner e Alexander Zverev – i primi tre del ranking, non esattamente tre outsider – l’hanno detto chiaramente nelle ultime settimane: la Davis è speciale solo se smette di essere così frequente.
Alcaraz, presente solo sulla carta per la Spagna prima dell’infortunio a Torino, è stato il più diretto: “Giocarla ogni anno le toglie unicità”.
Sinner, due volte campione con l’Italia, ha rincarato: “Io la Davis vera non l’ho mai giocata”.
Zverev, dal canto suo, ha definito l’attuale format “una specie di esibizione”.
Coppa Davis, atmosfera contro struttura: chi vince?
La verità è che l’atmosfera, quella dimensione magica che a Bologna ha portato Cobolli a strapparsi la maglia, non si può programmare a tavolino. Nel vecchio format “home and away”, la Coppa Davis era un romanzo scritto in capitoli irripetibili: trasferte ostili, tifoserie incandescenti, campi allestiti per esaltare le proprie caratteristiche, scenari che nessun altro torneo ricreava. Con il passaggio alle Finals in sede unica tutto è cambiato: prima Madrid, poi Malaga, ora Bologna fino al 2027.
Il colpo di mano di Kosmos, la società di Gerard Piqué, avrebbe dovuto segnare l’inizio di una nuova era, sostenuta da un contratto da tre miliardi di dollari in 25 anni. Restano però le idee di allora: concentrare, spettacolarizzare, rendere “vendibile” la Davis al mondo contemporaneo.
Il problema? Se il Mondiale di calcio si giocasse ogni anno, perderebbe buona parte del suo fascino.
E il tennis, sport individuale per definizione, ha sempre bisogno di giustificare l’eccezione.
Ross Hutchins, l’uomo che deve risolvere l’enigma
Il nuovo CEO dell’ITF, Ross Hutchins, lo sa. Ex giocatore, ex dirigente ATP, sopravvissuto a un linfoma e ora al timone della federazione che da gennaio 2026 si chiamerà “World Tennis”, si è detto apertissimo al dialogo: “Voglio che la Davis sia la competizione di squadra più grande del nostro sport. Se servono aggiustamenti, ci sarò.”
Il calendario, però, è un cubo di Rubik sempre più complicato:
– i Masters 1000 ATP si allungano,
– i giocatori lamentano fatica,
– le federazioni minori hanno bisogno di entrate,
– la Davis non può competere con la logica del mercato senza perdere identità.
E intanto gli spalti parlano: a Bologna pubblico da grande evento; in altre sessioni, come quella vinta da Zverev su Cerúndolo, poco più di mille spettatori in un’arena da diecimila.
L’atmosfera è il vero capitale della Davis. Ed è anche, ad oggi, il suo tallone d’Achille, soprattutto quando a giocare sono le nazionali NON di casa.
Il tema della rarità: una soluzione impossibile?
Molti invocano la biennalità: lo fa Sinner, lo fa Alcaraz, lo fa Zverev e lo suggeriva già Pete Sampras nel 2008, paragonando Davis e Ryder Cup.
Eppure, portare la Davis ogni due anni rischierebbe di tagliare fuori troppe federazioni, troppi giocatori, troppi introiti. E poi c’è un dettaglio cronico: ogni proposta calendaristica si schianta contro un’altra. Aprile dopo Indian Wells e Miami? Spezzerebbe la stagione. Settembre come la Billie Jean King Cup femminile? Quest’anno si è sovrapposta alla Laver Cup. Ottobre dedicato ai team event, con off-season vera? Fantascienza, almeno per ora. Anne Keothavong, capitana della Gran Bretagna in BJK Cup, lo ha detto chiaramente: “Renderla non annuale sarebbe logico, anche per il bene del tennis”. Tutto giusto, ma quanta logica è rimasta nel tennis?
Eppure, quando accade, è ancora la Coppa Davis
Domenica abbiamo visto Italia e Spagna giocarsi un titolo, competere per una coppa che ha il sapore eterno anche senza i primi due giocatori di ogni squadra: Jannik Sinner e Carlos Alcaraz, Lorenzo Musetti e Alejandro Davidovich Fokina. Non sarà il format perfetto, non sarà la formula ideale, non sarà la Davis di una volta, ma sarà Davis, perché la Davis vive dei suoi momenti.
E il momento di Cobolli, la sua corsa, il boato di Bologna, ricordano a tutti che questo torneo ha ancora un cuore enorme. Deve solo decidere quante volte all’anno farlo battere.
Il resto, sedi fisse, format, calendari, biennalità, investimenti, strategie, appartiene alla politica. Non la magia; quella si è vista, ancora una volta, sul petto e negli occhi di un ragazzo, nato a Firenze, ma più romano di tutti, che per una notte ha trasformato Bologna nella capitale mondiale del tennis.
