Ghemon, «Come sono uscito dal buio»
Questo articolo è pubblicato sul numero 2-3 di Vanity Fair in edicola fino al 19 gennaio 2021
Quando Gianluca Picariello scelse «Ghemon» come nome d’arte e di combattimento (ispirandosi al ladro di un grandioso fumetto manga), non sapeva che sarebbe diventato davvero un samurai. Non certo distaccato e schivo come il complice in kimono di Lupin III. Ma proprio come lui, preso da un costante e arcigno essere assorto, un macinar dell’anima che l’ha condotto attraverso duelli e trasformazioni: abbracciare l’hip hop per poi scombinarne la sintassi e l’estetica. Trovare il proprio aspetto esteriore e poi riperderlo mille volte. Riconoscere la depressione e vincerla (lo racconta nell’autobiografia pubblicata da HarperCollins). Rifiutare la sua voce e infine farla uscire tutta assieme, vibrante e senza ganasce. Con sei dischi diversissimi all’attivo e una partecipazione al prossimo Festival di Sanremo appena annunciata (il brano si chiama Momento perfetto), a 38 anni Ghemon passa le giornate ad affilare la sua spada. E nessuna sconfitta, nessun buio, diventerà più harakiri.
A Sanremo ci sarà Orietta Berti. Che cosa sa di lei?
«Non tanto, lo ammetto. Ma facendo rap ho imparato a portar rispetto verso chi ha carriere decennali. Ricordo che a Sanremo, due anni fa, mi son trovato seduto di fianco a Nino D’Angelo, che ha voluto ricoprirmi di consigli. Da veri terroni, io avellinese e lui napoletano, alla fine eravamo praticamente parenti».
La sua è una di quelle città un po’ dimenticate. Nessuno dice: domani vado in gita ad Avellino.
«Perché nei paraggi la concorrenza è alta, compresi luoghi meno conosciuti come Benevento. E poi si sa, un terremoto l’ha quasi distrutta. Però la natura intorno è stupenda, si vive bene, e quando l’Avellino giocava in Serie A venivano da tutto il Sud per vederlo: giocatori come Juary, Barbadillo e Dirceu, nella scala dei miei affetti, vengono subito dopo i genitori e i nonni».
È stato un ragazzo di curva?
«Vivevo a pochi metri dallo stadio e dal palazzetto dello sport, e le gradinate le ho frequentate parecchio. Anche in trasferta, dietro uno striscione creato coi miei amici: gli 0825 FANS. Era senso di appartenenza, una forma di aggregazione. Poi, pian piano, ho lasciato».
Oggi come ha iniziato la sua giornata?
«Mi sono allenato, poi ho bevuto il caffè. Faccio corpo libero due volte a settimana, uso le cassette dell’acqua, il tappetino yoga della mia fidanzata per gli addominali, e una cyclette di fortuna comprata prima del lockdown. Il mio trip per lo sport è antico, e l’ho mollato solo in certi periodi bui, in cui non ci stavo tanto con la testa. Mi piace la ripetizione che porta alla perfezione, il sacrificio che conduce allo slancio, come insegnano nel basket. La storia della mia vita è questa. Fare un passettino alla volta».
Ha funzionato anche con la depressione?
«Sì. Se ne esce riconoscendo il problema. E poi mettendo un giorno in fila all’altro, cercando le motivazioni, e accorgendosi con umiltà dei segnali che rischiano di far riaprire quella porta buia. Due anni fa pesavo quaranta chili in più, ero disordinato nel cibo e nelle abitudini: ora, appena perdo la disciplina, capisco che qualcosa nella mia testa non va e mi rimetto in carreggiata. Per un periodo mi sono anche fatto aiutare dalle medicine, e quando me le hanno prescritte mi son sentito rotto, pieno di vergogna. Poi ho capito che non è la chimica a guarirti, ma può essere una stampella importante. Vanno prese sotto il controllo di uno specialista e cessate quando lo decide il medico. Fare di testa propria è un errore grave».
Chi in quei momenti sa dire solo «dai, reagisci», ha ragione o la fa troppo facile?
«Entrambe le cose. Non è tristezza, che si getta via con uno scrollone. Ma ripeto: la volontà, la disciplina, sono tutto».
Senza dolore si possono scrivere le canzoni?
«Sì. E anche questo l’ho imparato con la dedizione e il metodo: non ci possono essere solo le grandi passioni, o le delusioni d’amore, ad alimentare la musica. Occorre sapersi rivolgere alla realtà, appuntarsi una cosa letta e vista, e trovare un accesso più sofisticato all’ispirazione. Le canzoni sono farfalle, ma il retino per andarle ad acchiappare si allena ogni giorno. Non serve distruggersi per fare un gran disco».
E intanto, da un anno, non si taglia più i capelli.
«Basette a parte, che sistemo da solo. Finalmente mi guardo allo specchio e vedo il riflesso che ho immaginato un anno fa. Sono io. Esattamente com’ero prima che iniziasse il periodo nero. Si è chiuso un cerchio e sono ritornato al punto di partenza. Con anni di esperienze e consapevolezze in più».
Per un lungo periodo assomigliava a Rutger Hauer di Blade Runner.
«È da quando son ragazzino che mi trasformo. E spesso è stato un modo per nascondermi. I fan mi dicono che se non ci fossero i social a tenerli aggiornati, vedendomi salire sul palco, certe volte non mi riconoscerebbero».
È vero che a inizio carriera, quando metteva la melodia nelle strofe dei pezzi rap, le davano del «finocchio»?
«Come no, vero. Anche per come mi vestivo. Ma io ci andavo giù duro e li sfidavo: sulla cover del mio primo disco indossavo un maglioncino e stavo sdraiato su un prato: pura blasfemia rap. Mi prendevano per il culo. Ma io combattevo un machismo che non mi piaceva».
In che piaga pensa di aver infilato il dito?
«Ho rotto le scatole a certe rigidità dell’hip hop, dandogli fluidità musicale. E giravo già con la band quando nell’ambiente era praticamente vietato. Per questo mi son preso gli insulti, ma non ho avuto paura. E credo di aver aperto una strada nuova, per quanto non sempre mi sia stato riconosciuto. Il resto, lo faranno le generazioni future».
ALL’ARISTON – Gianluca Picariello, in arte Ghemon, 38 anni. Parteciperà al prossimo Festival di Sanremo con il brano Momento perfetto.
Foto Martina Amoruso
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