Emergenza clima, Fabio Deotto: «Il nostro mondo è già cambiato»
Questo articolo è pubblicato sul numero 30-31 di Vanity Fair in edicola fino al 3 agosto 2021
Nel maggio 2019 il Guardian rese pubbliche le nuove linee guida dei suoi articoli: per esempio, si diceva, non si useranno più l’espressione «cambiamento climatico» e immagini stereotipate come «orsi bianchi in bilico su una zattera di ghiaccio», perché spostano l’attenzione al futuro, mentre l’emergenza è in corso. Fabio Deotto, giornalista e scrittore, con il suo L’altro mondo (Bompiani) parte da questo orso bianco, e racconta di come si sia già spostato in cerca di cibo a Belushya Guba, villaggio della Russia artica, terrorizzando gli abitanti. Prima e dopo il lockdown Deotto ha preso un po’ di aerei – sentendosi in colpa, ma pensando che ne valesse la pena – per andare a vedere con i suoi occhi i luoghi «da cartolina»: l’erosione delle coste alle Maldive, l’acqua che invade Venezia e New Orleans, la mancanza di neve nel villaggio di Babbo Natale, in Finlandia. «Spostiamo lo sguardo. Non si tratta più solo dell’orso bianco o del panda, emergenze esotiche, simboliche. È da almeno dieci anni che ogni giorno vediamo gli effetti del clima e non reagiamo».
Perché è così difficile occuparsi del cambiamento climatico?
«Il nostro cervello funziona in modo da immagazzinare informazioni secondo schemi mentali semplici per non dover continuamente aggiornarle. Mentre i dati sul clima sono disomogenei nello spazio, perché riguardano luoghi diversi in modo più aggressivo di altri, e nel tempo, per cui non c’è una progressione regolare».
Greta Thunberg ha usato la metafora del tetto in fiamme, lei dice che è come se stessimo per essere investiti da un autobus ma non ne abbiamo paura. Perché?
«Perché per provarla gli esperti dicono che una minaccia deve avere delle caratteristiche, essere improvvisa, attuale, personale, per esempio. L’emergenza climatica invece è come un bus che ci arriva contro da lontano ma vediamo che procede lento, quindi non è pericoloso. Proviamo invece la cosiddetta “ansia climatica”».
Che cos’è?
«Un insieme di manifestazioni inconsce, a livello di depressione, agitazione, che non riconduciamo al clima. Se fa più caldo e mi sento un po’ in ansia, non collego le due cose. Allo stesso modo se l’autobus arriva lento, sono all’erta ma non lo associo a un pericolo. Inoltre in noi scatta “l’illusione di controllo”, per cui guardiamo quello che fanno gli altri. Se il gruppo non reagisce, non reagiamo nemmeno noi».
Neanche con la pandemia, improvvisa e personale?
«Sicuramente ha colpito tutti nello stesso momento, e non la dimenticheremo. Ma il problema è sempre lo stesso: non si uniscono i puntini. Pochi hanno collegato che la pandemia è causata anche dallo squilibrio uomo-natura, con il primo che consuma suolo e biodiversità».
Il crollo di un palazzo a Miami, il più grave dalle Torri Gemelle negli Stati Uniti, per l’Economist è conseguenza dello sprofondamento del terreno.
«Esempio perfetto: si è parlato di un problema ingegneristico, strutturale, che forse c’è anche, e solo dopo della città che sta sprofondando nell’oceano. Se c’è un alluvione in Germania, al Tg la gente parla dei tombini intasati. Anche per il Covid si è cercata prima un’altra ragione, l’animale zero, il complotto cinese. La verità è che ci sono mille variabili, la realtà è complessa e non si possono dare risposte facili, ma l’emergenza climatica c’entra sempre: perché viviamo già in un altro pianeta rispetto al passato».
Si parla tanto della responsabilità personale sulla sostenibilità, poi lei spiega che il 71% delle emissioni globali sono imputabili a 100 grandi emettitori, quindi ogni azione personale è virtuosa, ma non ha tutto questo impatto. Che fare?
«Bisogna attuare sì le buone pratiche ma non illudersi che possa bastare. Da quarant’anni almeno siamo sottoposti a una retorica della responsabilità individuale che ha spostato l’attenzione sul singolo. Ma c’è una contraddizione: da una parte ci viene detto che dobbiamo limitare i consumi, dall’altra viviamo in un mondo in cui il benessere si misura col denaro. Perciò se dobbiamo avere Pil in crescita per stare bene, dobbiamo consumare. Bisogna quindi che anche gli enti, gli Stati, i grandi gruppi e le aziende si prendano le loro responsabilità».
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