I sommersi e i salvati
Questo articolo è pubblicato sul numero 37 di Vanity Fair in edicola fino al 14 settembre 2021
La mia Kabul, quella della metà degli anni Novanta, è una città in guerra in cui manca l’elettricità e l’acqua corrente, ma nella quale noi bambini giochiamo a calcio e sogniamo che qualcuno ci regali la maglia della nostra squadra preferita. Un pomeriggio, tornando a casa da scuola, là dove dovrebbe esserci la mia casa, non vedo che un mucchio di macerie: nei miei otto anni, il pensiero che i miei possano essere lì sotto non riesce a entrarmi in testa. Penso di essermi perso, mi siedo su un muretto. Finché arriva mio fratello, urla che il papà e la mamma sono morti ma per diversi giorni non gli credo. Due settimane dopo, è il 1996, partiamo per un viaggio lunghissimo, attraversiamo il Pakistan, rimaniamo bloccati in Iran per più di un anno, veniamo più volte arrestati e picchiati perché clandestini. Giunti in Turchia, mio fratello decide di cercare di raggiungere la Grecia a bordo di un canotto per permettere a me di arrivarci, sempre da clandestino, ma con una barca a motore. Morirà in mare insieme ai suoi due compagni e il suo corpo non verrà mai ritrovato. Quando succede, io non ho ancora dodici anni.
Nel 2001, dopo vari tentativi, arrivo a Venezia nascosto sotto la pancia di un tir. La mia vita a Roma, dove mi trasferiscono, è dura ma piena di incontri fortunati: cresco in vari centri di accoglienza, trovo degli insegnanti che mi spingono a studiare, degli amici che mi fanno sentire meno la nostalgia di quello che ho perso. Metto tutto me stesso negli studi e, vent’anni dopo quel giorno in cui mio fratello e io siamo partiti, mi laureo in Legge alla Sapienza di Roma. Nello stesso periodo conosco lo scrittore Francesco Casolo: assieme raccontiamo la prima parte del viaggio, quello da Kabul a Roma, in Stanotte guardiamo le stelle e poi, due anni dopo, la seconda parte del «viaggio» mio e di altri come me a Roma, in un libro che intitoliamo, non casualmente, I ragazzi hanno grandi sogni.
Non sono mai più tornato a Kabul. Non ho più famiglia là e non potrei andarci perché sono apolide e perché sono cristiano: lo ero da bambino a Kabul e lo sono tanto più da quando vivo a Roma. In alcuni momenti di nostalgia, ho cercato di ritrovare con Google Earth la via dove abitavo a Kabul, la scuola che frequentavo, ma decenni di guerra hanno cancellato tutto.
L’estate scorsa ho conosciuto una ragazza afghana, che era in Europa per una trasferta di lavoro. È cristiana anche lei e nei mesi successivi, sapendo quanto ci tenessero lei e la sua famiglia, quando la domenica mattina andavo a messa a Roma, riprendevo la liturgia col telefono perché loro potessero seguirla in diretta dall’Afghanistan assieme a me. Era in italiano, non capivano nulla, ma per loro era importante: una versione 2.0 dei cristiani delle catacombe.
Ai primi di agosto, con i talebani alle porte di Kabul, un conoscente li ha però messi in guardia: qualcuno li aveva sentiti pregare e voleva denunciarli. Due giorni dopo, il padre della mia amica è stato arrestato. Temendo di essere presi a loro volta, lei e la sua famiglia hanno pagato il guardiano di un garage e si sono nascosti in dieci nella cantina dello stesso. Al telefono, erano sempre più disperati: in sottofondo si sentivano chiari gli spari. I talebani erano entrati in città e cercavano i loro nemici: cristiani, collaborazionisti, altri pescati a caso.
Mi sono chiesto che cosa potessi fare. In uno dei tanti incontri per presentare i miei libri avevo conosciuto una parlamentare europea, l’onorevole Silvia Costa. Le ho domandato se poteva aiutarmi e lei si è mossa immediatamente trovando il modo di mettere in contatto i militari italiani a Kabul con loro. Dopo vari tentativi di andare a prenderli, questa famiglia è riuscita a raggiungere l’aeroporto e a salire su un aereo. Sono atterrati a Roma e al momento sono ospiti di una fondazione, Meet Human, che, insieme al ministero e a Silvia Costa, ha fatto tantissimo per salvarli.
Oggi però penso agli altri. Gli altri che cosa faranno? Gli occidentali sono partiti ma le persone continueranno a cercare di scappare: a muoverli è la stessa forza della disperazione che spinse me e mio fratello a metterci in viaggio. Come ha detto la stessa europarlamentare Costa, una cosa è certa: «Non possiamo abbandonare gli afghani e i profughi devono essere considerati rifugiati e non immigrati». È un inizio. Quella che ho raccontato è una storia di salvati: ma quanti, come il padre della mia amica, potranno essere i sommersi?
Aly Ehsani, 32 anni. Dal 2003 vive a Roma, dove si П laureato in Giurisprudenza. Ha scritto Stanotte guardiamo le stelle (Feltrinelli, 2016) e I ragazzi hanno grandi sogni (Feltrinelli, 2018).
Foto sopra: Afghani si imbarcano su un aereo militare americano, il 24 agosto a Kabul. Sono 104 mila quelli portati in salvo dalla coalizione internazionale.
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