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2021

Teresa Mannino: «Difendiamo l’empatia»

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Teresa Mannino
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I suoi primi spettacoli erano talmente improntati su Milano che, ora che Teresa Mannino è tornata a vivere in Sicilia con il suo compagno e sua figlia, chiederle se la città le manchi è quasi d’obbligo. «Certo che mi manca. Ho passato a Milano i miei ultimi 25 anni, la parte più divertente della mia vita. È lì che mi sono realizzata e sono diventata un’altra», racconta Mannino al telefono dalle Madonie, uno dei suoi posti del cuore. «Dopo un po’, però, si sente il bisogno di allontanarsi dalla città e di ritrovare il contatto con la natura» riprende Teresa, che il suo ultimo spettacolo a teatro, Sento la terra girare, interrotto dopo le repliche milanesi per lo scoppio della pandemia (era il febbraio del 2020), lo ha dedicato proprio alla Natura che muta davanti alla nostra indifferenza e noncuranza.

«Quando ho iniziato questo percorso facevo satira politica, ma non ero veloce a scrivere e non mi era facile stare al passo. Adesso è come se avessi raggiunto una maturità che mi permette di affrontare argomenti delicati come questo. Anche se, lì per lì, può essere difficile capire cosa ci sia da ridere mentre parli della fine del mondo. La risata è l’unico strumento che ci permette di parlare di cose di cui non parleremmo mai perché sarebbe troppo difficile» riprende Mannino che, venerdì 10 settembre in prima serata sul Nove, porterà in tv proprio quest’ultimo spettacolo, seguito il 17 e il 23 da Sono nata il ventitré e Terrybilmente Stravagante, i suoi show precedenti da tutto esaurito scritti, come sempre, insieme all’amica Giovanna Donini.

Ora che non è più a Milano, si è già riabituata ai ritmi siciliani?
«Ho sempre preferito fare le cose lunghe, “alla siciliana”. È per questo che non sono mai stata tanto da weekend: preferisco farmi i miei mesi in montagna per isolarmi da tutto. Poi, per quanto riguarda Milano, io dico sempre che, se resisti il primo anno, allora resti. Il primo anno è tremendo per chi viene dal Sud».

Il suo in cosa è stato tremendo?
«Piangevo tutto il tempo, mi sembrava che tutto quello che ero fosse sbagliato. Una volta che ho capito che le cose che ricevevo non erano tutte da buttare, però, sono riuscita ad accogliere quello che c’era di bello e a reinventarmi».

Mai pensato, durante quell’anno, di tornare giù?
«Quello mai. Cercavo di capire quale potesse essere la soluzione e, siccome mi voglio bene e sono positiva, a un certo punto mi sono detta “basta”, adesso devi fare qualcosa. Lì ho cominciato a fare teatro, e mi sono salvata».

Cosa l’ha salvata, invece, dall’inattività di quest’ultimo anno e mezzo?
«Tutto sommato il mio nucleo se l’è cavata bene. Quando ha chiuso tutto, eravamo appena arrivati in Sicilia: solo affacciarci e guardare la piazza era bellissimo. Ho occupato il tempo leggendo, scrivendo, studiando, facendo ginnastica la mattina. Ci siamo presi cura di noi in quei mesi».

Cosa ha letto?
«Molti saggi sulla botanica e la filosofia».

La filosofia, il suo primo amore.
«Un amore eterno che porto sempre con me. La mia formazione».

Quando si è iscritta all’università aveva un’idea di cosa avrebbe fatto?
«I miei coetanei me lo chiedevano sempre: “E poi che fai?”. Come se fosse tutto in funzione di cosa fare dopo. Come se fosse inutile studiare qualcosa che non ha uno sbocco evidente. Intanto, studiavo una cosa che mi piaceva: forse avrei insegnato, chissà. Ricordo, però, che ero in dubbio tra Filosofia e Fisica».

Non Medicina? Viene da una famiglia di medici.
«Ho preso da mia madre, l’unica non medico della famiglia: il modo di parlare e di comportami è il suo. Sentivo di dovermi smarcare da un percorso segnato. Essendo la terza figlia, volevo rompere lo schema».

In Sono nata il ventitré diceva di essere «ipocondriaca»: è vero?
«Non proprio anche se, sentendo sempre parlare a cena di pezzi tagliati e di malattie varie, un minimo di allerta l’ho sempre sentita».

La paura dell’aereo, però, è vera.
«Verissima. Quei pochi passi in avanti che avevo fatto sono andati in fumo con la pandemia: chissà quando mi rivedrà, un aereo. Dovrà esserci proprio il desiderio di un viaggio lontano, di un’altra meta. Altrimenti non lo prenderò più. Per ora faccio su e giù in macchina. Quell’ora e mezza per arrivare a Milano è sempre stata una fatica fisica mostruosa».

Però l’aereo lo prendeva, non rinunciava in partenza.
«Ci sono sempre salita senza stordirmi: senza whisky o ansiolitici. Preferivo soffrire, tremare, piangere, avere paura e godermi il momento dell’atterraggio. Quando vedevo terra già mi sentivo già meglio. Forse avevo l’ansia perché l’aereo non lo guido io, per un eccesso di controllo».

È maniaca del controllo?
«Un po’ sì, soprattutto nel lavoro. Ecco perché preferisco il teatro: lì la maggior parte delle cose le controllo io. Scrivo, produco, metto in scena, e sono pure sul palco. Un delirio di onnipotenza, insomma».

Teresa Mannino
Teresa Mannino
Teresa Mannino

La cosa che mi colpisce è che sul palco è sempre molto placida, rilassata.
«A teatro sono a casa mia: sono una psicopatica cui piace stare davanti a duemila persone. Lì non ho mai ansia, forse alle prime repliche ho giusto un problema di memoria perché sono una stronza e non studio tanto. Stare davanti al pubblico per me è curativo, è il posto giusto. Anche in aereo, se c’è qualcuno che si spaventa io provo sempre a dargli coraggio: se sono in compagnia, passa tutto. È per questo che il periodo del Covid ci ha fatto ammalare di testa. Soprattutto i ragazzi: non potersi vedere è stato disumano».

Lei la distanza l’ha un po’ esorcizzata con le sue lezioni in Dad su Instagram.
«Era un modo per aiutare i genitori a capire che non erano gli unici a pensare che fossero matti. La Dad è stata disumanizzante per gli alunni, snervante per i genitori e faticosa per gli insegnanti. Mia figlia, per fortuna, ne ha fatta pochissima. L’è sempre piaciuto studiare, conoscere, ma davanti allo schermo era un’altra: stava zitta, non interagiva, non aveva voglia».

Ripenso a quella battuta che disse a teatro sull’iper-attenzione dei genitori di oggi nei confronti dei ragazzi rispetto a trent’anni fa: a occhio e croce, mi pare che quello sketch sia invecchiato molto bene.
«Il trend è quello. Stiamo diventando sempre più ansiosi e preoccupati per i ragazzi inseguendo cose che sono inutili e non pensando alle cose davvero importanti. Questa mancanza di cura e di responsabilità è legata a un’umanità che non vede il futuro, una cosa che mi rattrista molto. Nessuno, per esempio, si è posto il problema di ridurre il numero degli alunni nelle classi. Una cosa assurda».

Lei fa molto ridere. Ma lei ride facilmente?
«No. Nella vita privata sono molto seria, insopportabile. Con il mio compagno e mia sorella rido tanto. È bello ridere. Ridere, oltre a dare gioia, rende più forti e più belli, ma non sono tanti quelli che riescono a farmi ridere».

La prima volta che ha fatto ridere?
«Ho un ricordo di me piccolissima, avrò avuto 4 o 5 anni, con il cappello di paglia di mio nonno a tesa larga mentre facevo la Pantera Rosa e i miei zii, sotto al fico, ridevano. Ero una di quelle che faceva tanto ridere a casa e a scuola».

A scuola cosa faceva?
«La buffona, ero una delinquente. Per tanti anni andavo a scuola per intrattenere, poi ho capito che era il caso di iniziare a studiare. Ero tremenda: mi interrogavano e, se non sapevo nulla, alla prima domanda fingevo di svenire e saltavo l’interrogazione. Altre volte, se avevo studiato, rispondevo con la parlata di una delle mie compagne e gli altri ridevano».

Sul Nove rivedremo i suoi 3 spettacoli, scritti e rappresentati in momenti diversi della sua vita. In genere, si rivede a cuor leggero?
«Se posso, non mi riguardo mai. In questo caso, però, sono stata costretta: ho rivisto il primo spettacolo con grande tenerezza: mi sono vista come una ragazzina alle prime armi. All’ultimo, invece, ho provato orgoglio perché il tema era complesso e attualissimo. In genere sono molto severa con me stessa, guardo tutto: l’abito, il trucco, la battuta, il movimento».

Questo autunno la rivedremo nelle 3 puntate-evento dedicate a Zelig: prevede l’effetto nostalgia?
«Secondo me Zelig non ha niente di nostalgico: si trasforma continuamente. I comici che lo costruiscono sono i tasselli di un mosaico sempre diverso. Chi va lì è chi ha voglia di stare con il pubblico ed esprimersi. Sarà molto contemporaneo e nuovo, siamo tutti pronti a fare una cosa Zelig».

La annoia rispondere alla domanda, gettonatissima dai giornalisti, sul fatto che ci siano delle cose oggi che non si possono più dire per timore di offendere qualcuno o qualcosa?
«Per me non ci sono limiti negli argomenti: a guidarti deve essere il buonsenso e il luogo in cui sei. Ci sono delle cose che noi comici italiani non diremmo mai per una questione di empatia, mentre gli americani le dicono lo stesso. A casa mia, per dire, dico delle cose che non direi mai in pubblico perché bisogna sempre tenere conto degli altri. Abbiamo bisogno di libertà, ma anche di non dimenticarci dell’empatia: farlo è uno dei peggiori rischi che stiamo vivendo e che la pandemia ha, purtroppo, accentuato».

(Foto in apertura di Giuseppe La Spada)

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