Quando non è più un gioco
Una volta tanto arriva qualcosa di buono dalla Cina. Intendiamoci: con metodi totalmente sbagliati, ma la questione che sta dietro a questo giusto provvedimento è urgente e riguarda anche l'Occidente. Si tratta in sostanza del rapporto tra i bambini, gli adolescenti e i giovani con i videogiochi. Non più di tre ore alla settimana. Metodo: la costrizione. D'altra parte, in un'economia - diciamo - di mercato come quella cinese i videogiochi non costituiscono una parte irrilevante perché, come è noto, molta componentistica viene anche da lì. Ma, finché questa è venduta all'estero, ognuno ne faccia l'uso che gli pare e la Cina di tutto ciò se ne sbatte altamente. Quando però il fenomeno riguarda la Repubblica popolare, allora se ne occupa secondo le modalità proprie di una dittatura comunista nella quale la costrizione, il divieto e la relativa punizione - certamente non blanda - equivalgono al concetto di educazione.
Da noi naturalmente non è neanche pensabile una legge nazionale che impone obblighi rispetto alla fruizione dei videogiochi, tanto meno di internet in generale e dei social in particolare. Intanto, perché da noi il concetto di educazione prevede certamente dei divieti, dei no - ma questi spettano prima di tutto alle famiglie e alla scuola. E di sicuro l'educazione non può risolversi instaurando una sorta di stato di polizia, come avviene in Cina, purtroppo non solo in questo campo.
Ma la domanda che dobbiamo porci è: esiste in Italia un problema di degenerazione nell'uso di tutto ciò che riguarda internet, i social e i videogiochi da parte dei bambini, degli adolescenti e dei giovani? Per non parlare degli adulti che spesso, con il loro comportamento, diventano cattivi maestri di un uso sbagliato dei social e dei videogiochi. Proprio i genitori sovente, non sapendo dialogare con i figli, usano in modo abnorme questi strumenti: giocano insieme a loro e così pensano - poveri straccioni - di intrattenere una qualsivoglia forma di rapporto con questi ragazzi.
Torniamo però ai figli e occupiamoci di loro. La scienza psichiatrica ha ormai da anni definito una nuova patologia: si chiama Iad (Internet addiction disorder), cioè una dipendenza patologica da internet. È stato calcolato in Italia ne soffrono circa 300 mila persone. È una dipendenza insidiosa perché, diversamente dall'alcol e soprattutto dalla droga (gli adulti sono affetti maggiormente da quella da gioco d'azzardo o sesso virtuale e qualche idiota statunitense ha pure sostenuto, nel bel mezzo del Covid, che l'uso di bambole gonfiabili può rappresentare un utile surrogato della relazione umana), non costa praticamente niente.
Ormai si possono passare giornate collegati a internet con abbonamenti abbordabili anche da persone senza particolari risorse economiche. Questo elemento naturalmente aggrava la situazione e rende molto più facile «ammalarsi dei social». Per fortuna è una dipendenza che si può curare. Nel 2009 il Policlinico Gemelli di Roma ha aperto il primo ambulatorio specializzato in dipendenza da internet, diretto da Federico Tognoni. Si può curare, ma non significa che non si tratta di una dipendenza molto grave.
Il soggetto che ne soffre si isola sempre di più dal mondo reale che gli appare difficile, in salita, ostile e si rifugia nel mondo virtuale che gli sembra viceversa semplice, amico e «in discesa». Chi sviluppa questa dipendenza ha bisogno, gradualmente, di passare sempre più tempo collegato per ottenere la stessa intensità di emozioni e, se ciò non è possibile, insorgono fenomeni di agitazione psicomotoria, ansia, depressione e pensieri su cosa possa accadere online mentre non è collegato. La sua mente, quando occupata in altre cose, è spesso distratta e instabile perché, in fondo, pensa sempre a ciò che sta accadendo su internet. E continua nell'ossessione anche dopo che si è reso conto dei problemi che sta vivendo. Si isola progressivamente da tutte le relazioni sociali, comprese quelle affettive. È la malattia dei nativi digitali.
Mi permetto di rimandare a un libricino scritto da me e che s'intitola Cosa rischiano i nostri figli. Schiavi dello smartphone? pubblicato da Piemme nel 2019. Devo dire, in tutta sincerità, che non ero a conoscenza né della dilagante diffusione della dipendenza né della profondità dei danni che provoca.
La Cina sbaglia i metodi, ma il problema esiste eccome.