Chi è e che cosa fa una «parent coach»
Professione: parent coach. Missione: aiutare mamme e papà a diventare i genitori che vogliono essere. Abbiamo tutti in mente, a grandi linee, cosa fanno un life coach, un business coach o uno sport coach, e non desta grande stupore il fatto che l’affiancamento di una figura professionale – il coach, appunto – possa aiutare a raggiungere un certo traguardo personale, lavorativo o sportivo. L’idea che la stessa cosa possa accadere in ambito genitoriale, invece, è decisamente nuova. «Il parent coach è una figura professionale pressoché sconosciuta in Italia», conferma la parent coach Elisa Pella, classe 1982 (su Instagram è @ilgenitoreconsapevole).
Iniziamo quindi sgomberando il campo dagli equivoci: non si tratta di uno psicologo, né di uno psicoterapeuta, né di un consulente. Non ha a che fare con i bambini, ma solo con i genitori. Sono loro, infatti, durante il percorso di parent coaching, da soli o in coppia, ad apprendere nuovi strumenti e strategie che servono a migliorare la comunicazione con i figli, a ridurre la conflittualità con essi e anche a compiere scelte educative con maggiori consapevolezza e sicurezza. «Non lavoro in nessun modo sul passato delle persone», precisa Elisa Pella, «Parto dalla situazione attuale e faccio un lavoro nel presente, con un orientamento verso il futuro».
Come è diventata parent coach?
«C’è un evento che segna un prima e un dopo nella mia vita: la nascita di mia figlia Emma (tre anni). Ho fatto un percorso lungo per averla, con la fivet (fecondazione in vitro con trasferimento dell’embrione, ndr). Da quando ho avuto il desiderio di diventare madre ho iniziato ad approfondire, leggere, informarmi. Nella mia vita ho lavorato tanto con i bambini, in nidi e materne private, ma senza una formazione specifica. Così ho studiato e sono arrivata alla gravidanza pensando: “Ok, è tutto sotto controllo”. E invece no. Il primo anno è stato molto difficile, alcune cose più di altre. La maternità mi ha messo di fronte ai miei limiti e le cose che avevo studiato mi rendevano più insicura, perché i bambini non rispondono in maniera così univoca ai comportamenti, come dicono i manuali. È stato un percorso lungo e faticoso, ma dopo un annetto ho raccolto i primi risultati. Durante la pandemia, stando di più a casa, ho avuto modo di applicare maggiormente quello che avevo studiato, e ho visto che funzionava. Mi è tornato il desiderio di mettermi in gioco e grazie a un’amica ho scoperto il coaching rivolto ai genitori. Ho fatto un master di parent coaching online e ho iniziato a lavorare subito dopo: all’inizio, per collaudare la pratica, con persone che conoscevo e che mi hanno dato fiducia, poi con altri. Ho avuto da subito grandissime soddisfazioni».
C’è l’idea diffusa che per fare i genitori non serva una preparazione: si impara facendo, e basta. Questo può far sentire inadeguati coloro che invece vorrebbero chiedere aiuto. Cosa ne pensa?
«Sicuramente c’è un senso di inadeguatezza. Ci sono donne per cui è estremamente difficile chiedere aiuto, perché pensano che ci sia qualcosa di sbagliato se non riescono a fare le mamme. Lo capisco: avendo fatto un percorso di fecondazione, l’idea di non riuscire a fare la mamma era doppiamente pesante per me. Non c’è, dalle generazioni precedenti, lo stimolo verso le mamme più giovani a cercare aiuto. C’è invece la tendenza a dire: io l’ho fatto, quindi lo puoi fare anche tu. I nostri genitori hanno fatto ciò che potevano con i mezzi a loro disposizione in quel momento, ma oggi sappiamo molto di più sullo sviluppo e sulla mente dei bambini. Inoltre, all’epoca magari si era più liberi da occupazioni, ambizioni… Nessuno va giudicato, ma non deve esserci oggi questo stigma nel chiedere aiuto, né si deve vedere con sospetto, come capita spesso ai genitori maschi, la presenza di una figura estranea alla famiglia. Non vado da nessuno a dire cosa dovrebbero fare, ma aiuto i
genitori a prendere consapevolezza e a vedere se ciò che fanno oggi è coerente con i loro desideri e obiettivi».
I suoi percorsi di parent coaching sono di due tipi: per un solo genitore o per la coppia. Qual è la tua principale tipologia di cliente?
«Prevalentemente ho a che fare con mamme che fanno il percorso singolo. Lavoro fino alla pre-adolescenza, cioè con genitori di bambini fino ai 10 anni, ma la fascia con maggiore richiesta è quella dai 2 ai 4 anni. È una fase, questa, in cui non c’è più la dipendenza totale dal bambino, che, anzi, diventa più oppositivo, cerca il suo
posto nel mondo. Il genitore ha quindi bisogno di strumenti pratici per ridefinire il proprio ruolo. È anche una fase in cui ci si interroga maggiormente sul tipo di educazione e comunicazione che si vuole mettere in atto. Quando la loro personalità inizia a emergere, i bambini ci mettono davanti ai nostri limiti come niente al mondo: a volte sembra di sbattere contro un muro. I percorsi di coppia, che ho introdotto in un secondo momento rispetto a quelli singoli, sono invece un’opportunità per creare un momento di confronto in un territorio neutrale, per ragionare sul lungo periodo staccandosi dalla frenesia della quotidianità e anche per allineare gli stili genitoriali che sono istintivamente diversi (più o meno permissivi, autoritari…).»
Al netto delle famiglie in cui è presente un solo genitore, non ha più senso intraprendere il percorso in coppia?
«Non è qualcosa che si può fare contro la propria volontà, con uno dei due genitori che obbliga l’altro: diventa utile solo quando se ne sente il bisogno. Fare il percorso da soli comunque serve: ci sono mamme che hanno l’80% del carico dei figli. Per il momento ho lavorato con una sola mamma separata, mentre in tutti gli altri casi si trattava di mamme all’interno di coppie».
Nella pratica, come funziona un percorso di parent coaching?
«Il percorso che io propongo si articola in otto sessioni standard, adattabili: magari a volte basta un percorso più breve, se i bambini sono molto piccoli, o con qualche sessione in più, se necessario. Le sessioni sono da due ore ciascuna e si svolgono su una piattaforma digitale, sulla quale ci vediamo una volta a settimana. Tra una settimana e l’altra do compiti sempre diversi, esercizi e stimoli attraverso cui aiuto le persone a fissare le cose che sono emerse durante la sessione e che servono anche a fare una “fotografia” della famiglia in quel momento. Ad esempio, propongo alcune attività da svolgere o chiedo di tenere traccia di dialoghi, emozioni. Non trattandosi di una consulenza, il punto di partenza di un percorso di parent coaching non è un problema da risolvere. Il primo passo è sempre l’individuazione degli obiettivi del cliente: cosa vuoi ottenere? Cosa ti blocca? Quali difficoltà incontri? Quali meccanismi scattano? Come ti comporti? Tale comportamento è coerente con gli obiettivi che vuoi raggiungere? Come coach, punto a dare al genitore strumenti che portino ad avere indipendenza di pensiero, che consentano di analizzare la situazione della famiglia e che permettano di agire in base ai propri obiettivi».
Facciamo un esempio concreto.
«Tu genitore mi racconti che la mattina tuo figlio non vuole mai uscire di casa, è lento a prepararsi e poi, quando uscite, si ferma ogni tre passi a guardare ogni singola cosa. Tu genitore ti snervi, perché è tardi, cerchi di essere gentile, poi non ce la fai più, perdi la pazienza, ti metti a urlare e non sei felice di te stesso. Quello che mi interessa chiedere è: perché secondo te quello che succede in questa situazione è giusto o sbagliato? Mi dici che il tuo obiettivo di genitore è sostenere l’individualità di tuo figlio, fare sì che ti consideri un porto sicuro – lo riassumo per l’esempio, ma ’individuazione di questo obiettivo è un lavoro che richiede molto tempo. Andiamo, allora, ad analizzare nuovamente l’azione. Quando tuo figlio si ferma ogni tre passi, ti sta dicendo che è estremamente curioso. La tua fretta, dettata dal bisogno di arrivare in orario a lavoro, interferisce con la sua scoperta del mondo. Se leggi in questo modo ciò che accade, puoi agire diversamente. Puoi scegliere di uscire da casa 30 minuti prima e fare in modo che tuo figlio abbia la possibilità di esplorare; oppure puoi dirgli che dedicherete un’ora all’esplorazione del territorio dopo che lo avrai preso a scuola, nel pomeriggio. Una volta capite l’esigenza del figlio (esplorare, essere curioso) e anche la propria (arrivare puntuale a lavoro), ci si chiede cosa sia possibile fare di costruttivo e pratico per risolvere questa situazione in modo coerente con l’obiettivo del genitore».
Essere mamma influenza il suo lavoro di parent coach?
«Mi chiedo spesso come farei questo lavoro se non fossi mamma. Essere madre non è determinante, ma non posso dire che non sia importante, perché ho ben chiaro il fatto che a volte non basta fare le cose bene, non basta aver provato una strategia o aver introdotto una buona pratica. A volte i bambini non “rispondono”, e allora bisogna cambiare. Alcune consapevolezze nascono nella mia famiglia, dai dialoghi con mia figlia di tre anni che mi rivelano di più del modo di pensare di un bambino. Potrei fare lo stesso questo lavoro, ma essere mamma mi dà una marcia in più».
Quello con un parent coach è un percorso potenzialmente utile a qualunque genitore o ha senso solo se si avverte il bisogno di un aiuto, se c’è una problematica?
«Può essere utile in ogni caso. Ci sono persone che mi dicono di essere contente del tipo di genitore che sono, ma che sono comunque incuriosite e interessate al percorso. Ovviamente il lavoro è diverso, in questo caso, e i passi da fare sono più piccoli. Ma la crescita come genitori non ha fine ed è un lavoro che anche io faccio continuamente su me stessa».
Un aspetto particolarmente difficile del suo lavoro?
«L’unica cosa a cui devo stare attenta è quando vedo che le persone hanno un altro tipo di problematica: se ci sono traumi non risolti o difficoltà gravi che esulano dalla mia competenza, allora devo indirizzarle verso un altro tipo di professionista».
Le difficoltà legate all’essere genitori oggi hanno a che fare, secondo lei, con la società in cui viviamo?
«C’entra il concetto di “buon genitore”: a volte è davvero strano da che cosa è influenzato. “Per essere un buon genitore dovrei…”: ogni persona completa la frase a modo suo. E la completa in base a convinzioni che derivano dall’ambiente familiare, dalla società, dai paragoni con gli altri bambini che avvengono sui social o parlando con amici, dai messaggi pubblicitari… È un concetto che in genere è molto poco centrato su quello in cui le persone credono. Andando a lavorare con i clienti su ciò che è importante per loro, vengono fuori cose molto distanti dai paramenti su cui loro stessi si giudicano in quanto genitori. Se si hanno degli obiettivi, però, è in base a questi che ci si deve giudicare, non in base allo sguardo degli altri. Non è facile aiutare le persone a liberarsi da questi condizionamenti. Decidere di cambiare è sempre difficile, ma porta grandi benefici. Ti riappropri di te stesso».