La Trattativa “non costituisce reato”. Assolti De Donno e Mori. Condannati per minacce solo i boss mafiosi. Per Marcello Dell’Utri invece il fatto non sussiste
Una trattativa tra uomini dello Stato ed esponenti di Cosa nostra c’è stata. Solo che non costituisce reato: almeno per quanto riguarda le condotte contestate agli esponenti delle Istituzioni. È questa la decisione che chiude il processo d’Appello sulle interlocuzioni tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra nel biennio delle stragi. A emettere la sentenza, dopo più di tre giorni di camera di consiglio, la corte d’Assise d’Appello di Palermo.
Assolti politici e carabinieri – I giudici hanno deciso di assolvere i vertici del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno dall’accusa di violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato perché il fatto non costituisce reato. Diversa la formula usata per assolvere l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri: secondo la corte lo storico braccio destro di Silvio Berlusconi il reato non lo ha proprio commesso. Alla fine a essere condannati sono solo i mafiosi: il reato contestato a Leoluca Bagarella è stato derubricato in tentata minaccia nei confronti del primo governo Berlusconi: la pena, dunque, è stata abbassata a 27 anni con un anno di sconto rispetto al primo grado. Confermati, invece, i dodici anni di pena inflitti ad Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Con questa sentenza, dunque, la corte presieduta da Angelo Pellino, con a latere il giudice Vittorio Anania, riforma quasi totalmente le decisioni del primo grado. Presenti all’interno dell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo i rappresentati della pubblica accusa, i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che avevano chiesto la conferma delle condanne di tre anni e mezzo fa. A parte Cinà, collegato in videoconferenza dal carcere di Sassari, invece, nessuno tra gli imputati è comparso al bunker.
Le condanne di primo grado – Il 20 aprile del 2018 i giudici del processo di primo grado avevano condannato a dodici anni di carcere Mori e Subranni. Stessa pena per Dell’Utri e Cinà, che secondo l’accusa è il “postino” al papello, le richieste di Riina per fare cessare le stragi. Otto gli anni di detenzione che erano stati inflitti all’ex capitano dei carabinieri De Donno, ventotto quelli per il boss Bagarella, cognato del capo dei capi. Erano state prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, mentre era stato assolto Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: per l’ex ministro della Dc la procura non aveva fatto ricorso, quindi la sentenza è poi diventata definitiva. Sono state invece dichiarate prescritte nel luglio del 2020, dunque durante il processo d’Appello, le accuse a Massimo Ciancimino, uno dei testimoni fondamentali del processo, che in primo grado era stato condannato a 8 anni per calunnia a Gianni De Gennaro. Non sono arrivati alla sentenza di primo grado, invece, i due imputati principali: Totò Riina e Bernardo Provenzano, i vertici di Cosa nostra deceduti in carcere tra il 2016 e il 2017.
La trattativa? Ci fu, ma non è reato – Ora arrivano le decisioni dell’Appello che sono completamente diverse. Certo bisognerà aspettare di leggere le motivazioni – saranno depositate tra 90 giorni – ma di sicuro c’è che la sentenza di oggi stravolge gran parte della ricostruzione operata dai giudici di primo grado. Assolvere i carabinieri con la formula “perchè il fatto non costituisce reato“, vuol dire che il fatto c’è: è stato commesso ma senza dolo. E il fatto, in questo caso, è aver trasmesso al governi in carica tra il 1992 e 1993 – quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi – la minaccia stragista dei mafiosi. Per la corte Mori, Subranni e De Donno aprirono effettivamente un canale di comunicazione con Cosa nostra ma senza alcuna intenzione di commettere un reato. Ecco perché per Cinà è stata confermata la condanna di primo grado: il medico di Riina, infatti, è accusato di aver fatto da postino al papello, cioè il foglio di carta con le richieste avanzate dal capo dei capi per far cessare le stragi. Quel pezzo di carta era destinato ai carabinieri. Visto che Cinà è stato condannato, vuol dire che per i giudici il papello è effettivamente passato di mano: ma se il medico di Riina aveva effettivamente intenzione di veicolare la minaccia delle stragi nei confronti dello Stato, evidentemente per i giudici così non è stato per i militari. E’ probabile che su questa decisione abbia influito l’assoluzione definitiva di Calogero Mannino: secondo l’originaria tesi dell’accusa l’ex ministro della Dc è l’uomo che chiede ai carabinieri di aprire la trattativa, perché intimorito dalle minacce ricevute proprio da Cosa nostra. Mannino, però, ha scelto di farsi processare con l’abbreviato ed eè stato assolto in via definitiva: per i giudici non chiese di trattare con Cosa nostra ma continuò addirittura a combatterla. Quando invece all’operato dei carabinieri con Ciancimino, per il giudici del rito abbreviato si trattava solo di una “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria”. Una tesi che l’assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, adottata dalla corte d’Assise d’Appello, sembra avvalorare.
L’assoluzione piena di Dell’Utri – Diversa, invece, la situazione di Marcello Dell’Utri. Se il segmento della trattativa che riguardava i carabinieri poteva essere collegato all’assoluzione di Mannino, quello del fondatore di Forza Italia era completamente sganciato dai destini di Mori, De Donno e Subranni. Secondo l’accusa, e la sentenza di primo grado, l’ex senatore è l’uomo che trasmette la minaccia mafiosa di Cosa nostra al primo governo Berlusconi. E invece per la corte d’Assise d’Appello Dell’Utri non ha commesso il fatto: non si è fatto “cinghia di trasmissione” dei desiderata dei boss nei confronti del primo esecutivo di Forza Italia. Ecco perché i giudici hanno anche riqualificato il reato contestato a Bagarella: da minaccia ad un Corpo politico dello Stato a tentata minaccia.
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