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Сентябрь
2021

Cambiare il modo in cui consideriamo il cibo ci aiuterà a porre fine alla fame

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Avevo otto anni quando una forte siccità devastò il piccolo villaggio dove vivevo, in Zimbabwe. Una feroce ondata di calore prosciugò il fiume, distrusse i raccolti, uccise il bestiame e ci lasciò la fame. Un giorno, ero così debole che svenni. Nella mia giovane mente, pensai che stessi per morire. Per fortuna, una donna africana che lavorava per le Nazioni Unite mi trovò, mi diede una ciotola di porridge e mi salvò la vita.

Parecchi anni dopo, rimane incomprensibile come la fame, proprio quella fame che per poco non mi uccise, sia ancora così dilagante. Produciamo abbastanza cibo per sfamare tutti in questa società, eppure una persona su nove va ancora a dormire affamata e la malnutrizione rimane la principale causa di morte e malattia al mondo. Dunque, in che altro modo si può risolvere la fame globale? Oltre ad affrontare conflitti e altre cause di fondo, strutturali e sistemiche, bisogna cambiare il modo in cui pensiamo al cibo - non come una merce ma come un diritto fondamentale - e, di conseguenza, il modo in cui lo produciamo e lo consumiamo.

Negli anni della mia infanzia, all’inizio degli anni 80, la carestia era principalmente considerata un “problema africano”. Oggi, la fame e la fame estrema continuano ad avere un impatto sproporzionato sul continente africano e in quei paesi in via di sviluppo che subiscono maggiormente gli effetti del cambiamento climatico. Le siccità, come quella che aveva colpito la mia comunità, e altri eventi meteorologici estremi come alluvioni, tempeste e ondate di calore, mettono sempre più a rischio le vite e i mezzi di sostentamento. Eppure, i paesi maggiormente colpiti da questi fenomeni sono quelli che meno hanno contribuito alle emissioni di gas serra che li hanno causati.

E poi ci sono gli sprechi di cibo. Un terzo del cibo prodotto nel mondo va perso perché conservato male o sprecato a livello del consumatore nei paesi ricchi, quando non viene mangiato o viene lasciato a deteriorarsi nei frigoriferi e nelle dispense. Il cibo sprecato è il terzo maggiore produttore di diossido di carbonio nel mondo, dietro a Stati Uniti e Cina, un ulteriore fattore che peggiora gli effetti dei cambiamenti climatici sulle comunità nei paesi in via di sviluppo.

Il 23 settembre, le Nazioni Unite hanno organizzato a New York il primo Vertice sui Sistemi Alimentari, nell’ambito della Decade of Action per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG). Il Vertice vuole promuovere nuove e coraggiose azioni per il progresso di tutti e 17 gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, ognuno dei quali si basa in qualche modo su sistemi alimentari più sostenibili, più sani e più equi. Ciò è particolarmente valido per il secondo SDG, quello che indica la strada per un mondo a fame zero e senza malnutrizione. Per arrivarci, però, abbiamo bisogno di azioni collettive che trasformino i nostri sistemi alimentari, cioè il complesso insieme di figure e processi che fanno in modo che il cibo raggiunga le nostre tavole.

Se vogliamo porre fine alla fame, dobbiamo smetterla di considerarla come un problema altrui: deve invece essere una responsabilità condivisa che necessita di una solidarietà globale tanto nei paesi in via di sviluppo quanto in quelli sviluppati. L’equazione è semplice: se, tutti insieme, siamo responsabili della creazione del problema, allora dobbiamo, tutti insieme, essere anche capaci di risolverlo. Ora più che mai ci rendiamo conto di quanto le azioni e i comportamenti individuali possano davvero avere un impatto significativo sulle vite di altre persone in altre parti del mondo. Questa consapevolezza ha formato la mia crescita ed è al cuore dell’antica sapienza africana di Ubuntu – “Io sono perché noi siamo”. Ubuntu significa che siamo parte di un tutto più grande, collegati gli uni agli altri dalla nostra umanità condivisa, quella stessa umanità che mi salvò allora la vita. La saggezza ci racconta come le nostre gioie e le nostre sofferenze siano strettamente connesse alle gioie e alle sofferenze degli altri. Quello che colpisce uno di noi colpirà, un giorno, in vario modo, tutti noi. Ma, soprattutto, ci dice che se vogliamo davvero superare le sfide, l’unico modo è di lavorare tutti insieme, come una grande collettività.

*Elizabeth Nyamayaro è consigliera speciale del World Food Programme




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