La moda ha capito che il mondo è cambiato?
Paloma Elsesser è una modella fuori dai canoni: ha 24 anni, origini sparse tra il Sudamerica e la Svizzera, è nata a Londra ma cresciuta a Los Angeles, è stata scoperta da un’agenzia a New York e oggi è tra le modelle plus size più famose al mondo. A 11 anni entrò in un camerino e vi uscì in lacrime perché non trovò un solo pantalone che entrasse nella sua taglia.
La moda vista in questi giorni alle sfilate della fashion week di Milano sembra essere rimasta rinchiusa in quel camerino. E poco importa se nel frattempo è scoppiata una pandemia che ha accelerato tutti i cambiamenti, compresi quelli che riguardano la bellezza inclusiva: non c’è traccia di Paloma sulle passerelle di Milano. Di più: su tutte le pedane degli stilisti italiani si vedono solo modelle della stessa taglia e con la stessa fisicità (alte, magre e filiformi) con una sola eccezione. È Jill Kortleve, modella olandese plus size, che però risulta come una mosca bianca, un rimedio frettoloso più che una scelta vera o una vera presa di posizione. E per trovare altri corpi, altre forme, bisogna guardare ai creativi giovanissimi, come i promettenti Act N.1 e Sunnei. Ma la moda, soprattutto quella dei grandi designer, non dovrebbe seguire e capire i cambiamenti e nel migliore dei casi anticiparli o provocarli? Perché allora oggi continua a indugiare in una bellezza così poco inclusiva?
La prima risposta è sicuramente il metodo. Esattamente come successo qualche anno fa, quando si pose il tema della presenza di BIPOC, ovvero di neri, indigeni e persone di colore in una parata di soli modelli e modelli bianchi, l’alzata di scudi fu silenziosa o unanime: ma perché, si chiesero in molti, bisogna catalogare la bellezza per il numero di bianchi, neri e asiatici? Oggi serpeggia la stessa domanda con l’ennesima scusa: non è una deriva del politically correct voler includere a tutti i costi tutte le forme dei corpi femminili? Non basta Jill Kortleve?
No, non basta. Per due motivi. Il primo è perché in un momento di rivoluzione (e noi ne stiamo vivendo uno davvero radicale) ogni estremizzazione è necessaria. Forse forzata, forse strumentale ma sicuramente necessaria. In molti, per esempio, ieri criticavano le quote rosa, ovvero la forzata presenza femminile in contesti in cui è stata storicamente negata. Le quote rosa, come l’inclusione di bellezza diversa e non conforme, sono un passaggio necessario per giungere a un mondo dove il problema della presenza femminile nella società non sarà più un problema. Esattamente come, si spera, succederà alla bellezza inclusiva.
In secondo luogo, invece, è importante che la moda cambi radicalmente punto di vista sulla bellezza dei corpi semplicemente perché la moda è uno degli strumenti di comunicazione e di apprendimento più potenti e pervasivi. Da una parte, infatti, gli abiti ci accompagnano nella vita e ci definiscono (per ruoli, scelte, sessualità, identità e individualità) come pochissimi altri beni sono in grado di fare. Dall’altra, la moda e il suo sistema di immagini e valori è uno dei mezzi che più ci può aiutare nel processo di emancipazione da un’idea di bellezza canonica e escludente a uno più universale, ampio e forse più umano.
Resta però un problema di metodo che, in realtà, potrebbe diventare un’occasione d’oro per l’intero sistema. A oggi i campionari delle collezioni (i modelli degli abiti) e persino i cartamodelli degli abiti (ovvero le strutture base dei vestiti, quelle che servono per organizzare la loro produzione) sono pensate in un’unica taglia che rispecchia quello che vediamo in passerella, ovvero modelle magre e filiformi. Non sarebbe invece il caso di modellare la creatività, fin dal principio, su corpi non conformi e stereotipati? Come sarebbe la moda se invece che su una modella magra, alta e filiforme fosse pensata su tutti i tipi di fisicità?
Sarebbe un cambiamento radicale, non facile, non breve ma forse molto, molto promettente. Qualcosa che forse sarebbe in grado di disinnescare un meccanismo obsoleto e polveroso per poi innescare un nuovo modo di guardare e di guardarci. La moda ha bisogno di questo cambiamento. Non solo perché il mondo è già cambiato, ma per riprendersi il posto che le spetta, ovvero quello di generatrice di cambiamenti. Altrimenti lo spazio in cui si troverà a muoversi sarà quello del camerino di Pamela a 11 anni.