Agordo accogliente. Il cameriere Abdul arrivato con il barcone qui si sente a casa
AGORDO. «Ogni domenica io vado al cimitero a trovare Claudio. Lui è nel cuore». Abdul Aziz porta la mano nel punto del corpo che l’uomo ha simbolicamente eletto a patria dei sentimenti e delle emozioni più profonde. Lì, assieme ai famigliari che ha lasciato in Bangladesh, c’è anche Claudio Faè, morto nell’aprile 2021, che nel 2017 gli ha dato un’opportunità assumendolo allo Zum Brillen Bar-Ristorante di Valcozzena ad Agordo. La vicenda di Abdul, 34 anni, originario del Bangladesh, che ha lavorato in Libia, che ha attraversato il Mediterraneo col barcone e che è giunto in Italia, conferma che le strade lungo le quali si snoda la vita delle persone sono tracciate da un insieme di scelte: le proprie e quelle altrui.
DIVISI SUI MIGRANTI
Nei primi mesi del 2017 in vallata si accese la discussione sulla possibilità di dare ospitalità ai migranti. Il ricco Agordino voltò le spalle alla sua stessa storia. Solo l’amministrazione comunale di Agordo, allora guidata da Sisto Da Roit, scelse di dialogare con la Prefettura e di accogliere sei migranti in collaborazione con la cooperativa bellunese Blhyster. Abdul Aziz, che oggi lavora con soddisfazione sua e dei titolari al bar ristorante di Valcozzena, era uno di loro. «Ho fatto tre mesi col sindaco – racconta – e siamo andati a pitturare le ringhiere all’ospedale, vicino all’Agip e vicino a Carlin».
Se li ricordano tutti mentre spalano la neve, tagliano l’erba, raccolgono la spazzatura, danno una mano allo stadio di calcio per piccole manutenzioni, collaborano col Pedibus. L’obiettivo da raggiungere, però, era far sì che queste persone trovassero un lavoro che desse loro dignità e possibilità di rimanere. «Un giorno – ricorda Glenda Testor, la vedova di Faè – Claudio andò in municipio e chiese se fosse possibile che uno venisse a lavorare da noi».
UN TUTTOFARE AL RISTORANTE
Sono da poco passate le 15 e Abdul esce dalla cucina e si siede al tavolo. «Io faccio di tutto – spiega il 34enne – preparo il buffet, lavo i piatti, faccio l’orto, taglio la legna e faccio anche lo spiedo. Claudio mi ha insegnato». Dopo aver vissuto un periodo in via Carrera ad Agordo, oggi abita in una stanza con bagno a Taibon nei pressi dell’appartamento di un altro migrante suo connazionale che lavora alla Casa di soggiorno del paese.
Allo Zum Brillen Bar arriva attorno alle 9.30-10 e inizia a preparare in cucina, finisce alle 15, torna alle 18 e rimane fino alle 21.30. Generalmente va e torna a piedi. «A me piace camminare – sottolinea – se c’è bel tempo Abdul viene a piedi, se c’è brutto tempo allora il nostro chef che è di Cencenighe passa a prendermi». Il verbo camminare, che nel suo italiano incerto diventa «camminere», torna spesso nel racconto. A cosa pensi Abdul mettendo un passo dopo l’altro lo sa lui. Una cosa, però, è certa. «Io sto bene qui – dice – e io voglio rimanere qui. Qui la gente è buona e dice sempre «Ciao Abdul». Vorrei portare qui anche la mia famiglia, ma è difficile trovare una casa in affitto».
Dopo l’accoglienza e il lavoro a tempo indeterminato sarebbe un altro tassello sulla via dell’integrazione. Il telefono suona ripetutamente. Un paio di volte Abdul non risponde perché crede sia maleducato farlo. Poi schiaccia il verde e dice brevemente qualcosa nella sua lingua. È la figlia adottata di quattro anni che vuole parlare col papà che non vede dal vivo da oltre due anni. Con lui ci sono altri due figli di 16 e 14 anni e la moglie. Ma ci sono anche i genitori di Abdul. «Mio papà non sta bene – racconta – ha problemi di cuore e ai polmoni. Ogni mese io gli mando 20.000 taka (circa 200 euro) per le cure e le medicine».
È vent’anni che il papà sta male e che non può lavorare. Per questo è toccato ad Abdul caricarsi la famiglia sulle spalle. «Non sono andato a scuola – racconta - ho iniziato a lavorare a 8-9 anni. Abdul lavorava e mangiavamo in sei: i miei genitori, io e i miei tre fratelli». Coltivava la terra. Mi spiega: «Il campo era di un proprietario ed era diviso in due parti: una la lavoravo io, la seconda un altro contadino. Seminavo e raccoglievo fiori, patate, carote, insalata, basilico, pomodori, pomodorini, prezzemolo, radicchio, zucchine, cetrioli. Poi andavo a venderli al supermercato: una parte del guadagno la tenevo per me e un’altra andava al proprietario». Allo Zum Brillen Bar hanno pensato bene di far tesoro del pollice verde di Abdul e infatti gli hanno affidato la cura dell’orto. «Fra poco metto il letame – già programma lui – e poi semino di tutto. In Bangladesh, invece, questa è la stagione delle piogge che dura quattro mesi: si coltivano solo fagiolini». Abdul ha dovuto imparare a convivere con un clima molto diverso. «Qui servono una, due, tre magliette – scherza – lì ne bastava una». Quando ha attraversato il Mediterraneo sul barcone, invece, non ne ha indossata alcuna.
BASTONATE ALL’IMBIANCHINO
«In Bangladesh non guadagnavo abbastanza – racconta – così nel 2012 sono andato a lavorare in Libia. Ho fatto l’imbianchino e facevo anche i disegni sulle pareti. Per tre anni non mi hanno pagato e, lungo le strade, prendevamo anche le botte dalle forze dell’ordine. Non so perché. Sono rimasto cinque anni e dopo ho deciso di venire in Italia con la barca». Gli occhi di Glenda si bagnano quando racconta questo capitolo. Quelli di Abdul sono asciutti, fermi e profondi. Cercano, per pudore, di rendere normale qualcosa che non lo è e che lui sa non esserlo.
«Eravamo in 175 sulla barca – dice – avevo paura di affondare, poi è arrivata anche la pioggia, ma ho pensato che Allah mi avrebbe aiutato. Siamo stati 43 ore in mare senza cibo. Per il viaggio ho pagato 1.700 dinari libici (attualmente circa 330 euro, ndr)». Abdul non ha studiato, ma, come è successo a tanti genitori agordini delle generazioni passate, coltiva il desiderio che i suoi figli possano farlo anche attraverso i sacrifici che lui ha compiuto e sta compiendo. «Quello più grande – racconta – ha già fatto undici anni nella madrasa (un istituto per le scienze giuridico-religiose musulmane, ndr) e vorrebbe venire in Italia per fare il medico. Il secondo, invece, va a scuola da nove anni».
Anche ad Abdul piacerebbe poter andare a scuola e imparare la lingua. «Io so poco arabo e poco italiano – confessa – vorrei conoscere di più l’italiano». Cammina tanto Abdul tra Taibon e Agordo, il telefono, strumento fondamentale per restare in contatto con una famiglia che manca tanto, come compagno. Ci sono persone che lo salutano. A lui piace essere riconosciuto, essere considerato parte di una comunità. «In piazza ad Agordo vado al Miniere a bere il caffè – dice – perché Ivan (Bettini, il proprietario del locale, ndr) mi saluta sempre e viene qui da noi a mangiare con la moglie». È un bevitore di caffè e te ne vorrebbe offrire uno anche se lo hai preso appena da mezz’ora. Per lui è normale. «Ne bevo 7-8 al giorno – dice – alcol no, solo mezza birra a settimana. Cibo italiano? Mi piace la bistecca, la pasta all’arrabbiata e aglio, olio e peperoncino, anche la pizza tonno e cipolla. A mezzogiorno però mangio poco».
A fine giornata, invece, quando il locale rimaneva vuoto, Abdul e Claudio si sedevano al tavolo. Indica il posto preciso ed è come se si rivedesse. «Lì – dice Abdul - io e Claudio mangiavano assieme. Sempre assieme. No, non parlavamo, ma eravamo sempre lì».