L'ex magistrato di Mani Pulite, Davigo: «Il corrotto non cambierà, ecco perché in Italia in carcere ci vanno in pochi»
L’ex pm a Pisa: «Solo in questo Paese può succedere che un presidente del consiglio, condannato, venga affidato ai servizi sociali»
La corruzione, dice, «è seriale». Cioè: «Chi corrompe, e chi viene corrotto, lo farà sempre». E per corroborare la sua tesi, l’ex pm simbolo di Mani pulite, Piercamillo Davigo, che ha festeggiato il trentennale di Tangentopoli con un rinvio a giudizio per rivelazione di segreto d’ufficio sul caso della Loggia Ungheria, usa pure una metafora: «Una prostituta non si prostituisce una volta sola, altrimenti che prostituta è?». Nella sala del palazzo della Sapienza di Pisa, scatta una risata. È sempre stato così: un magistrato dalla battuta facile, anche se non sempre felice, un uomo di giurisprudenza e talk show. Giovedì 17 febbraio è ospite di una tavola rotonda organizzata dall’Università di Pisa in occasione dell’anniversario delle inchieste di Mani Pulite, a cui ha partecipato anche Don Ciotti. Ma il caso ha voluto che il giorno prima la Consulta approvasse cinque referendum, tra cui uno che vorrebbe limitare la carcerazione preventiva per il pericolo di recidiva solo ai reati più gravi. Le sue parole non arrivano a caso.
E proprio sul tema carcere si sofferma a lungo. Secondo lui, «in Italia nessuno va in carcere». O meglio, ci vanno «solo» tre categorie di persone: «Quelli così stupidi che si fanno beccare in flagrante, quelli per cui non si possono applicare attenuanti o forme alternative, come ad esempio i reati di stampo mafioso, o quelli che la fanno talmente grossa che un po’di carcere se lo devono fare per forza».
E lo spiega meglio con i furti di auto. «Se si legge il codice penale – dice – si scopre che per il furto di aiuto la pena va da tre a dieci anni di reclusione. Ci sono diverse aggravanti. Quindi chi ruba tre auto dovrebbe andare in carcere 30 anni. Se così fosse, non ci dovrebbe essere più nemmeno un furto di auto. Ma le cose non vanno così, perché si danno attenuanti che tolgono le aggravanti e la pena scende a quattro mesi e due giorni. Per queste pene, c’è l’affidamento ai servizi sociali. La misura alternativa alla detenzione è stata concepita per andare incontro ai deboli, alla fasce disagiate della società. La tragedia italiana è che questo istituto viene applicato anche ai vertici, ai superintegrati».
Sul tema, rincara la dose. «Nessun altro Paese – dice – penserebbe di affidare ai servizi sociali un politico condannato definitivamente per reati di corruzione che ha svolto due o tre volte l’incarico di presidente del consiglio e voleva fare addirittura il presidente della Repubblica. Si affida ai servizi sociali che ha bisogno dei servizi sociali non chi vuole governare il Paese». Cita anche se stesso, dicendosi tranquillo perché «anzitutto sono innocente, ma anche perché ho più di 70 anni e quindi eventualmente me ne starei tranquillamente a casa». Porta come esempio anche Cesare Previti, condannato a sei anni di carcere «per la più grave corruzione in atti giudiziari» che però «tra indulto e altri benefici ha fatto solo cinque giorni di carcere. In Italia, quindi, una corruzione da mille miliardi di lire vale appena cinque giorni di carcere».
Ma la giornata al palazzo della Sapienza è servita per ricordare come nacque quel fenomeno giudiziario, che sarebbe naufragato come tutte le inchieste che lo avevano preceduto se non fosse stato per il «cambiamento politico in corso». Il «sistema – dice Davigo – non reggeva più: era troppo costoso e troppo invasivo. Gli imprenditori che avevano lucrato, anche in modo indecente, hanno iniziato a sentirsi concussi quando le tangenti hanno iniziato a pesare sui loro profitti. Le misure europee avevano imposto vincoli di bilanci e controlli sulla spesa pubblica. C’erano quindi meno soldi per accontentare i commensali e scaricare il costo delle tangenti sulla pubblica amministrazione».
Quindi tutti iniziarono a fare quello che ancora non avevano fatto: a parlare. «Gli imprenditori iniziarono a parlare perché sapevano che non potevano più corrompere a costo zero, ma soprattutto sapevano che quel sistema politico stava finendo, che non dovevano più rispettare i patti fatti: vedevano la loro classe dirigente sulla via del tramonto. Mentre la politica sapeva di essere stata scaricata». E così, chi fino ad allora aveva fatto scena muta, chi negava, chi faceva lo gnorri, iniziò a raccontare, a confermare, a dire tutto. La tela piano piano prendeva forma. Le supposizioni incominciarono a diventare certezze, prove provate, anche se intorno c’era chi continuava a fare resistenza.
«Mi ricordo che Craxi – continua Davigo – disse, poco prima che Mario Chiesa, decidesse di collaborare “in questa città nessuno amministratore pubblico è stato condannato con sentenza definitiva in 50 anni”. Ma questo dimostra solo l’inefficienza della giustizia, non la loro innocenza». Ma d’altronde lui lo aveva già detto anni fa che «non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove».
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