«I nuovi jihadisti arrivano dai Balcani e reclutano giovani in cerca di identità»
È online il nuovo saggio di Andrea Manciulli sul terrorismo. «Toscana non immune: basta un pc per radicalizzarsi»
La Toscana, dice, «fino ad ora ha saputo mettere in campo un’ottima prevenzione contro il terrorismo». La sfida, adesso, è saper leggere e fermare il jihadismo proveniente dai Balcani. Era da lì che veniva l’imam bosniaco Bilal Bosnic, una vera star dei sermoni sul web, arrestato nel 2015 per il reclutamento di adepti dell’Isis sul territorio italiano, dopo un passaggio al centro islamico di Monteroni d’Albia (Siena). E sempre da lì partono ancora «pericolosi elementi di propaganda e proselitismo». A dirlo è Andrea Manciulli, uno dei massimi esperti di terrorismo in Italia, presidente di Europa Atlantica e un passato nella Nato, autore, insieme a Enrico Casini, di “2001-2021. Vent’anni di guerra al terrore” (edizione Start insight, con prefazione di Marco Minniti.
Dottor Manciulli, dopo il ritiro degli Usa dall’Afghanistan, cosa può succedere?
«La storia del jihadismo è una storia complessa che in qualche modo ha già indicato una traccia anche del futuro. Bin Laden, nel 2004, scrisse un documento per un nuovo ordine internazionale che tracciava un po’la modalità con quale Al Qaida voleva procedere di lì in avanti per arrivare alla costituzione di un Califfato internazionale che cambiasse l’ordine mondiale. Indicava quattro fasi. Una prima fase clandestina che avrebbe portato al radicamento di Al Qaida. La seconda fase è quella della rivelazione che contiene l’11 settembre, nella quale Al Qaida doveva emergere come minaccia per l’Occidente e come faro per il fondamentalismo islamico: è la fase dei grandi attentati. È nella terza fase che è avvenuto un fenomeno di mutazione con l’avvento dello Stato Islamico: Al Qaida ha sempre voluto rimanere nell’ambito di uno jihadismo clandestino, Daesh invece ha rappresentato una forma diversa, molto più occidentalizzata. Ha creato uno Stato che non era solo un’entità territoriale, ma anche una patria. Il Daesh rappresenta l’avvento di una jihad mediatica che ha saputo rendere globale il fenomeno. Quindi, se vogliamo pensare al futuro, bisogna tenere conto di questi cambiamenti. La jihad non è più solo un movimento clandestino, ma un fenomeno di proselitismo di massa: non è più come nel mondo di Al Qaida dove c’è una cellula e pochi adepti che si contaminano tra loro e stanno nella clandestinità, ma siamo di fronte a un fenomeno che, pur continuando ad avere questa caratteristica di clandestinità, ha accanto una forma di sensibilizzazione di massa che lo rende molto più pericoloso. La maggior parte degli attentati sono stati fatti da persone che si sono radicalizzate per conto loro davanti al computer».
Può succedere anche in Italia e in Toscana?
«Sì. In Italia i radicalizzati pericolosi sono pochi. La cosa preoccupante è che la jihad mediatica ha un grosso appeal soprattutto tra i giovani e va tenuto sotto controllo».
Ci sono zone più a rischio radicalizzazione di altre?
«No, bisogna capire che chi si radicalizza non ha necessariamente problemi di natura economica. Sono persone frustrate nell’identità. Sono giovani che subiscono la fascinazione dell’identità forte».
Le moschee che ruolo hanno?
«Il grosso della radicalizzazione non passa più dai centri islamici. Anzi, le moschee sono diventate centri di collaborazione per sconfiggere la radicalizzazione. Quello che fa paura adesso è il jihadismo fai da te che passa dal proselitismo mediatico».
Il periodo dei grandi attentati dei lupi solitari sembra per finito insieme allo Stato islamico in Siria e Iraq.
«No, anzi: la fine dello Stato islamico ha fatto nascere una sorta di rivalsa che ha molto fermentato il dark web e non solo lì. C’è bisogno di prevenzione, soprattutto nella fascia dei giovani. Esiste una produzione di video giochi nella quali i giovanissimi giocano a fare il terrorista. Non dico che sia automatico il passaggio, ma il rischio c’è».
E come si combatte la jihad mediatica?
«Ci vuole una doppia leva. Una repressiva e una di contrasto all’ideologica radicale nel quale il dialogo con l’islam è fondamentale».
Nel testo che avete pubblicato sostenete che l’Afghanistan potrebbe tornare a essere un hub di Al Qaida. I talebani non hanno tutto l’interesse a non farla rafforzare?
«Il rapporto tra Al Qaida e talebani non è sciolto. Consideriamo che il ministro degli Interni talebano, Haqqani, fa parte di un club che era, ed è, fiancheggiatore di Al Qaida. Il rischio quindi c’è, ma ormai non c’è più solo l’Afghanistan. Ormai siamo in una fase policentrica dell’incubazione jihadista. Si sta avverando quello che diceva Bin Laden: i fronti stanno proliferando».
Uno peraltro è davanti all’Italia. Nell’Africa subsahariana si stanno consolidando alcune enclave islamiche che, a seconda del momento storico, simpatizzano più o meno con l’uno o l’altro brand del terrore.
«Oggi esiste un fenomeno di proliferazione, come detto. Il jihadismo è in Asia, nelle Filippine, nella zona della Malesia, in Indonesia, in India. Poi sì, c’è tutto il fronte che per noi è quello che più preoccupante, del Sahel. Sta diventando il nuovo hub in Africa del terrorismo. Li avvengono cose preoccupanti. Il terrorismo si è completamente radicato in quella zona, mischiando traffici e terrorismo. Il terrorismo si finanzia attraverso il traffico di armi, droghe ed esseri umani. E siccome si tratta di zone povere, la popolazione tollera e asseconda il terrorismo perché gli dà una forma di economia, illegale, ma è l’unica forma di sussistenza. Quindi il Sahel è molto preoccupante anche perché ha a nord la Libia, Algeria e Tunisia».
Preoccupante per l’aumento del flusso per migratorio o per il rischio che arrivino anche terroristi via mare?
«È preoccupante perché il traffico di esseri umani alimenta il terrorismo. È chiaro che ci possano essere persone radicalizzate che arrivano attraverso il flusso migratorio, ma i terroristi veri e propri non rischiano di essere scoperti con il traffico di essere umani. Arrivano in genere in Occidente attraverso la rotta dei Balcani. Bisogna pensare che, per loro, un terrorista che viene in Europa a creare una cellula è un investimento, non lo si mette in un barcone».
L’intelligence come lavora per capire se chi arriva è un possibile terrorista?
«Sta lavorando sicuramente bene. Io e Stefano D’Ambrosio siamo stati i relatori del decreto antiterrorismo nel 2015, che ha allargato la fattispecie di reati. Adesso può essere perseguito anche chi si auto-radicalizza, prima era prevista solo la fattispecie dell’organizzazione terroristica. Con quel decreto abbiamo permesso di realizzare anche un contrasto preventivo sull’organizzazione dei viaggi. Naturalmente non basta. Il vero problema oggi non è chi viene da fuori, ma sono i giovani che si stanno radicalizzando, via web e social, in età scolastica».
In Toscana la macchina della prevenzione funziona?
«In Toscana è stato fatto un grande lavoro. Non a caso l’ex capo della Digos fiorentina, Lucio Pifferi, è oggi dirigente dell’antiterrorismo al Viminale. In Toscana ha cercato di sviluppare la prevenzione anche in assenza di una legge specifica e questo è stato molto positivo. Ha portato le istituzioni ad avere un rapporto stretto con le comunità islamiche che hanno contribuito ad aumentare il livello di prevenzione. In Toscana è stato attuato un modello che fino ad oggi ha dato buona prova di se».
RIPRODUZIONE RISERVATA