Non perseguitavano gli inquilini, assolti due fratelli: erano finiti a processo con l’accusa di stalking
foto da Quotidiani locali
UDINE. I fratelli udinesi Sabina e Nicola Donatis, di 59 e 57 anni, non sono degli stalker. I comportamenti rispettivamente tenuti con gli allora affittuari degli appartamenti che avevano dato in locazione in viale Venezia non integrano cioè il reato degli atti persecutori che era stato contestato loro dalla Procura.
O meglio, di cui erano stati chiamati a rispondere a seguito dell’imputazione coatta disposta dal gip, a fronte della richiesta di archiviazione presentata dal pm. La parola fine ai procedimenti è arrivata in due differenti momenti.
Per la donna, che aveva scelto il rito abbreviato e che il 4 febbraio 2016 era stata giudicata colpevole e condannata dal gup di Udine a 6 mesi di reclusione (sospesi con la condizionale), con tanto di risarcimento danni, quantificati in 5 mila euro, all’inquilina costituitasi parte civile, la vicenda si era chiusa già nel settembre del 2017, con il ribaltamento della sentenza in secondo grado.
Ritenendo fondato l’appello del difensore, avvocato Filippo Mansutti, e riconducendo le «reciproche incomprensioni tra locatore e conduttrice alla sfera dei rapporti civilistici», la corte triestina presieduta dal giudice Edoardo Ciriotto l’aveva assolta per insussistenza del fatto.
Per il fratello, che aveva preferito affrontare l’istruttoria dibattimentale, ottenendo già in quella sede, nel settembre 2019, l’assoluzione con la formula «perché il fatto non costituisce reato», ritenendo la giudice Carlotta Silva «insufficiente la prova che il fatto sussista», la vicenda aveva a sua volta avuto una coda in appello.
A impugnare la sentenza era stata la parte civile, ossia la conduttrice rappresentata dall’avvocato Francesca Cinque.
Inequivocabile il verdetto: oltre a confermare la decisione di primo grado, la Corte d’appello di Trieste presieduta dal giudice Andrea Comez ha ritenuto di condannare la stessa parte civile alla rifusione delle spese legali in favore dell’imputato.
Da un lato, quindi, a smontare la ricostruzione accusatoria era stata la carenza probatoria. Le presunte condotte vessatorie di Sabina Donatis, che dall’ingresso dell’inquilina, nel settembre 2011, l’avrebbe «ossessionata, controllandone gli spostamenti, anche con appostamenti e suonando al citofono, telefonandole e mandandole messaggi, e criticandone le abitudini di vita», non avevano trovato alcun conforto, se non che nelle dichiarazioni della sorella e della madre. Né era risultato provato «lo stato grave e perdurante di ansia e paura» che lo stalking dovrebbe provocare.
Quanto a Nicola Donatis, a dirimere la questione era stata l’assenza di dolo. Perché se è pur vero che «il numero e le modalità, talvolta poco gentili e contrarie agli accordi contrattuali, degli accessi all’appartamento e l’insistenza delle pretese integrano un comportamento molesto, idoneo a generare lo stato di grave e perdurante ansia e a determinare le modifiche delle abitudini di vita della persona offesa – aveva spiegato il giudice del dibattimento –, deve d’altra parte rilevarsi che gli interventi dell’imputato sono sempre stati motivati da “esigenze manutentive”».
Donatis, insomma, nonostante gli incessanti messaggi, le lunghissime telefonate, la decina di volte in cui aveva accompagnato i tecnici della caldaia, il taglio del glicine e l’apposizione del cartello “vendita” sulla facciata dell’abitazione, «non voleva interferire inopportunamente nell’altrui sfera di libertà».