Georgia O'Keeffe: il vero sogno americano
![](https://www.panorama.it/media-library/georgia-okeeffe.jpg?id=29436262&width=1200&coordinates=0%2C213%2C0%2C381&height=400)
Personalità irrequieta e affascinante, ha segnato la pittura del Novecento con visioni di deserti, suggestioni urbane, presenze vegetali conturbanti. Una mostra, appena inaugurata alla Fondazione Beyeler di Basilea, la racconta attaverso le sue opere straordinarie.
Grandi fiori, iris, papaveri, petunie, che sulla tela si schiudono in forme enigmatiche e sensuali. Poi le esplosioni di colore, dove luoghi ed elementi vegetali si trasformano in paesaggi affiorati da dimensioni parallele. E poi - veloce cambio di scena - le sagome notturne dei grattacieli di New York: precise, monumentali, scandite dalla luci accese dietro le finestre, ma rappresentate anche in questo caso con un’atmosfera sospesa. Fino alle «visioni» dal deserto del New Mexico, lande che si confondono con l’orizzonte, con teschi e ossa sbiancate di animali a emblema di una vita remota, sotto un cielo di un azzurro perfetto e imperturbabile alle vicende degli umani.
Il percorso artistico di Georgia O’Keeffe, riguardato oggi dalle ristrettezze dell’età digitale, è ancora più vivo e vibrante. La pittrice che ha segnato in profondità il Novecento dell’arte non solo americana (è nata nel 1887 e se n’è andata, quasi centenaria, nel 1986), racchiude anche l’essenza del Paese-mondo che sono gli Stati Uniti: sempre proiettato in una corsa verso il futuro nelle sue metropoli, eppure destinato a un richiamo sotterraneo e invincibile dello spazio, della natura, di quella «frontiera» reale e interiore che, però, non si raggiunge mai. La Fondazione Beyeler di Basilea, in Svizzera, ha appena inaugurato un’importante esposizione - con 85 opere in mostra - che percorre l’intera parabola dell’artista, lunga e straordinaria di incanti e passaggi. Ci sono i disegni a carboncino e gli acquarelli dei suoi primi anni che sperimentano le strade dell’astrazione e quelle di suggestioni trascendentali.
Quindi le tele che raccontano fiori, foglie, alberi come ambigue proiezioni di altre realtà. C’è «l’innamoramento» per Manhattan di lei, provinciale originaria del Wisconsin, sentimento che corrisponde a quello vissuto per il grande fotografo Alfred Stieglitz, oltre vent’anni in più di lei, mentore e compagno fino alla sua morte nel 1946. Scrive la pittrice, nel 1928: «Mi rendo conto che sia insolito voler lavorare in alto, vicino al tetto di un grosso albergo, nel cuore rombante di una città, ma penso che oggi sia quello di cui un artista ha bisogno come stimolo». Ecco allora i quadri con i tetti e i contorni degli edifici che aspirano al cielo e i panorami, là in basso verso l’East River, fitti di ciminiere. La grande macchina del mondo nuovo.
O’Keeffe la osserva e la dipinge dalle finestre dello Shelton Hotel, dove si era trasferita a vivere con Stieglitz. Sono gli anni dell’affermazione. Nonostante questa produzione ricca, inquieta e apprezzata, è però il tempo delle opere realizzate nel deserto americano quello che la connota di più. Dopo il Texas conosciuto negli anni Dieci, quando insegna in un college, la piena scoperta di questo luogo «scarnificato» e drammaticamente essenziale avviene nel 1929, in New Mexico, nella cittadina di Taos che è già un rinomato «buen ritiro» per artisti e intellettuali in fuga dalle claustrofobie urbane. Lo sguardo di O’Keeffe punta però oltre.
Irrequieta, indipendente, curiosa, tra gli anni Trenta e Quaranta, mentre l’America subisce la Grande depressione, si immerge in quel territorio inaspettato che diventa così cruciale per la propria creatività: «Le ossa puntano dritte al centro di qualcosa che è acutamente vivo nel deserto, nonostante la sua vastità vuota e intangibile, qualcosa che conosce bellezza ma non conosce pietà» riassume, descrivendo l’ispirazione che le evocano gli scheletri rinvenuti tra sabbie e rocce che diventano i soggetti della serie «Pelvis».
Da qui l’itinerario espressivo di O’Keeffe - che nella selezione fatta dalla Beyeler si segue fino al 1977 - è di un’adesione intensa, completa al paesaggio: sentieri che si spingono nella distanza, in un nulla nato da tavolozze di rosa e di verde; la magnetica vetta spianata del Cerro Pedernal («Dio mi ha detto che, se avessi dipinto quella montagna un certo numero di volte, alla fine sarebbe stata mia»); i cieli sopra le nuvole, quelli attraversati in aereo nei grandi viaggi della vecchiaia (visiterà l’Europa solo negli anni Cinquanta), che spalancano scorci e prospettive diverse, anche per le sue opere. Le femministe, siamo ormai negli anni Settanta, la eleggono ad artista di riferimento perché lei è stata capace di rappresentare la sostanza di «ciò che ogni donna vuole». Anche i giovani hippie, che vagheggiano un «ritorno alla terra», restano affascinati dal suo modello di vita cosmica. Lei si schermisce sempre, insofferente a etichette e facile pubblicità. E replica con un suggerimento fulminante: «Andate a lavorare». La sua arte ha in effetti bisogno di poche cose, che non ammettono però compromessi per far scaturire il miracolo: «Quando me ne sto da sola con la terra e il cielo, quel qualcosa che sento in me emerge, e si espande verso l’ignoto…» spiega.
Nelle foto che la ritraggono, è in cammino su mesas desolate, in cerca di frammenti e tracce disseminate sul fondo del deserto, il volto brunito dal sole e l’espressione soddisfatta: essere nel luogo che finalmente le corrisponde. Di fronte a una personalità artistica così affascinante, vale la pena richiamare uno dei suoi soggetti più intensi e conturbanti, che nella mostra di Basilea ricorre in diverse varianti e, a chi lo guarda, continua a parlare dalla sua profondità. Si tratta della splendida serie ispirata al patio della casa di Abiquiú.
In uno dei quadri, c’è questo muro ocra che si alza dalla terra quasi dello stesso colore, al di sopra il taglio azzurro netto e indifferente del cielo. Al centro della parete sta la porta d’ingresso che conduce dentro un quadrato di buio e che, al tempo stesso, attrae e impaurisce. Spingendosi al di là, dove si arriva? È il mistero - la vita, la morte, l’arte, ciò che è inspiegabile se non attraverso la percezione dell’anima - che ci rende l’opera così vicina e carica di significato. In cerca come tutti di risposte, Georgia O’Keeffe confida: «A me sembra sempre di passeggiare sulla lama di un coltello».