Lo shopping del Qatar
Per l’Emirato arabo, l’Italia è terra di conquista: in edilizia, turismo, moda, sanità, energia... Del resto, i nostri politici negli ultimi anni si sono prodigati a favorire «rapporti di amicizia» (6 miliardi di euro gli scambi commerciali nel 2022). E, forte del suo potere, ora il Paese del Golfo minaccia di chiudere le forniture di gas in ritorsione alle misure ipotizzate dalla Ue dopo lo scandalo delle mazzette.
E' grande come l’Abruzzo, ha meno abitanti della Toscana, vanta sconfinate ricchezze. E adesso l’Emirato vuole diventare il più grande esportatore di gas del pianeta. Il Qatargate, lo scandalone che sta demolendo l’europarlamento e la sinistra italiana, è solo un’inevitabile appendice del Qatarpower? Le mazzette a politici e lobbisti per addomesticare Bruxelles provano gli illimitati mezzi e le sconfinate ambizioni del minuscolo Paese mediorientale? Certo, Doha minimizza. Si faceva anche in Italia agli albori di Mani pulite: mele marce, marioli, chi poteva immaginare? Invece, i magistrati belgi pensano che pure questa corruzione sia sistematica. Lo temono gli stessi governanti europei. Vorrebbero bandire dall’assemblea i qatarini, che minacciano di interrompere relazioni e forniture di metano, fondamentali per affrancare il mondo dalla Russia.
È solo l’ennesima dimostrazione del conclamato strapotere. L’Emirato è entrato perfino nelle case di tutti gli abitanti del pianeta, con i Mondiali di calcio e la tunica tradizionale indossata da Lionel Messi durante le premiazioni. Il Qatar è ovunque. Anche in Italia, prediletta terra di conquista. Immobiliare, moda, hotel, sanità, energia. Nessuno disdegna affari con Doha. Nemmeno il Vaticano. Le porte sono spalancate, ovunque, da anni. Dal febbraio 2014, per l’esattezza: quando a Palazzo Chigi sale Matteo Renzi, che poi diventerà remuneratissimo consulente dei vicini concorrenti sauditi, discusso e inamovibile incarico. È stato proprio «Matteo d’Arabia» a far scoppiare l’amicizia tra i due Paesi, poi proseguita con i suoi successori. In particolare, Giuseppe Conte, volato a Doha per incontrare Tamim bin Hamad al-Thani. L’emiro ha ricambiato la cortesia. È venuto in visita ufficiale a Roma due volte, accolto con tutti gli onori dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «Constato con piacere che la nostra cooperazione bilaterale è ampia, strutturata ed efficace in ogni settore».
Indubitabile. Pecunia non olet. Nei primi nove mesi del 2022 gli interscambi commerciali tra Italia e Qatar, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, si sono addirittura triplicati: da due a sei miliardi di euro, grazie anche all’importazione di gas. Rapporti saldissimi. E, soprattutto, vicendevoli. Ad aprile 2022, per esempio, è stata consegnata la «Damsah», seconda delle quattro corvette della classe Al Zubarah commissionate a Fincantieri dal ministero della Difesa di Doha: un acquisto da quattro miliardi di euro. Sempre lo scorso aprile, l’aeronautica qatarina ha ricevuto i primi due elicotteri della commessa da tre miliardi di euro a NHIndustries, partecipata da Leonardo, per costruire 28 aeromobili. E vale 6,8 miliardi di euro l’accordo con il consorzio Eurofighter, che ha tra gli azionisti ancora l’ex Finmeccanica: 24 caccia da combattimento ordinati, i primi sei sono stati consegnati un anno fa.
Pure i possedimenti italiani dell’Emirato sono considerevoli: valgono oltre cinque miliardi di euro. Sono gli affari del fondo sovrano, il Qatar Investment Authority (Qia), creato per diversificare i favolosi ricavi nel settore energetico dello stato mediorientale. Doha, a suon di petrodollari, continua a comprare pregiatissimi simboli del made in Italy da un decennio. Nel 2012 viene acquistata, per 650 milioni di euro, la Smeralda Holding, che detiene alcuni tra gli alberghi più lussuosi al mondo: come il Cala di Volpe o il Pevero golf club, nonché la Marina di Porto Cervo. E soprattutto 2.300 preziosi ettari di terreni immacolati nella costa gallurese.
Nel 2015 arriva l’altro colpo finanziario: il fondo sovrano qatariota compra per 2 miliardi di euro il 40 per cento di Coima Res Siiq, che possiede i grattacieli di Porta Nuova, diventati il simbolo di Milano. Ad agosto 2022 rilancia: dopo una generosa opa, la Qia acquista la totalità delle azioni ordinarie e diventa azionista unico della società. Sempre a Milano, è proprietaria di altri pregiatissimi palazzi, come quello di via Santa Margherita, che ospita gli uffici di Credit Suisse.
Del resto, il mercato immobiliare meneghino rimane l’investimento più profittevole in Italia. Ma il Qatar, nel nostro Paese, ha puntato anche sull’alta moda: prima con Valentino, rilevata nel 2012 per 700 milioni di euro, poi è toccato a Pal Zilieri. Soprattutto, però, ha sbaragliato nel mercato dell’hôtellerie. Ancora nel capoluogo lombardo, ha comprato il Gallia, dove si fa il calciomercato. A Roma vanta l’Excelsior, albergo della Dolce vita felliniana, e il sontuoso St. Regis.E poi il Gritti Palace di Venezia, che ospitò Winston Churchill e Charles De Gaulle. Controlla anche il Baglioni e il Four Seasons a Firenze. Nonché quattro spettacolari hotel in Costa Smeralda, come il citato Cala di Volpe. Su tutti, adesso, sventola bandiera bianca. E granata.
In Sardegna non è solo il lusso la terra di conquista. C’è pure la sanità: un investimento da un miliardo di euro, che parte da Doha e arriva fino al Vaticano. L’ospedale Mater Olbia, acquistato dal San Raffaele, ha aperto tre anni fa dopo lunga e tormentata gestazione. Inizialmente, il 60 per cento era in mano alla Innovation arch, società lussemburghese della Qatar foundation. Il 35 per cento, invece, era della Fondazione policlinico Agostino Gemelli: a sua volta dell’Istituto Toniolo, presieduto dall’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, e dall’Università Cattolica. E il restante 5 per cento? Alla Luigi Maria Monti Mater Olbia, una Srl creata da una fondazione legata al Vaticano. Doha prometteva «ingenti investimenti finalizzati allo sviluppo territoriale». Di sicuro, anche in questo caso, non ha lesinato risorse. Nell’ultimo anno è salita nell’azionariato: adesso possiede il 75 per cento della struttura gallurese, vista la messa in liquidazione della fondazione vaticana e la cessione del dieci per cento del Gemelli, che lo scorso agosto è sceso al 25 per cento.
Insomma: dopo anni di perdite del Mater Olbia, culminate con un passivo di 24 milioni nel 2021, i qatarini si sono messi una mano sul cuore. E l’altra nel portafoglio. Come sempre. Quisquilie, davanti alle incommensurabili ricchezze dell’Emirato: terzo Stato al mondo per riserve di gas e primo esportatore via nave di Gnl, il decisivo «metano liquido». Tanto che ora minaccia di interrompere le forniture, se l’Ue non rivedrà le misure anticorruzione ipotizzate dopo la scoperta del vorticoso giro di mazzette tra Doha e Bruxelles. Un’inchiesta rinominata «The italian job» per il coinvolgimento di portaborse e politici di centro sinistra, a partire dall’ex europarlamentare di Articolo 1, Antonio Panzeri. L’indagine, che ha già terremotato l’assemblea, sembra destinata a travolgere tutto. Meno che i sontuosi affari del Qatar ovviamente, viste le grane energetiche europee.
La supremazia impone buoni uffici anche all’Eni. A giugno 2022, il colosso italiano è diventato socio al 25 per cento di QatarEnergy nel progetto North Field East, il più grande giacimento di gas naturale al mondo che sarà completato nel 2025. L’accordo ha una durata di 27 anni. E permetterà di azzerare la nostra dipendenza dalla Russia. Qatar Petroleum, a sua volta, detiene il 23 per cento del più grande rigassificatore d’Italia: quello al largo di Porto Viro, in provincia di Rovigo. Mentre il magnate di Doha, Ghanim Bin Saad Al Saad, guida una cordata di imprenditori interessati a rilevare dalla russa Lukoil la raffineria Isab di Priolo, che da sola copre il 22 per cento del fabbisogno italiano di gasolio e benzina. E tra i consulenti del liquidissimo businessman c’è un altro mito della Gauche caviar tricolore, già premier e ministro degli Esteri: Massimo D’Alema, l’ormai inarrivabile suggeritore.
Non c’è solo il business, però. I favolosi ricavi delle esportazioni vengono usati anche per fare proseliti. Il libro Qatar Papers, scritto dai giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot, esemplifica: solo nel 2014, Doha ha finanziato moschee e centri islamici in Europa con 72 milioni di euro. E in Italia, ne sono arrivati più di 22. Le donazioni avvengono tramite la Qatar Charity: una munifica Ong controllata dall’Emirato, dedita a diffondere la dottrina e la cultura islamica nel continente. Donazioni dietro cui si nasconderebbero, sostengono gli autori del libro, frange radicali e anticamere terroristiche. L’organizzazione benefica, difatti, sponsorizza soprattutto i progetti degli inflessibili Fratelli musulmani. L’associazione, a sua volta, viene considerata vicina all’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche in Italia.
È stato proprio l’ex presidente, Izzeddin Elzir, a confermare in passato gli stretti legami: «È stato fatto un lavoro di raccolta fondi molto valido, che ci ha consentito di procurarci 25 milioni di euro. Sono del Qatar Charity, che garantisce trasparenza e tracciabilità tra chi dona e riceve». Adesso l’imam di Firenze, dopo l’inchiesta belga, è costretto a puntualizzare: «Mai preso mazzette, come qualcun altro. Quei soldi, arrivati tramite banche nel pieno rispetto delle leggi, non sono serviti per l’interesse di qualcuno, ma per offrire ai fedeli musulmani luoghi di culto più degni e accoglienti».
Già, le comunità musulmane in Italia non dispongono di grandi risorse. Continuano a mantenersi con le piccole donazioni dei fedeli. La pioggia di Doha è l’acqua nel deserto. E facilita, insinuano molti, una sorta di concambio morale: l’Islam da predicare, insomma, è quello conservatore. Il più vicino al Qatar. Per questo sono stati investiti tanti danari. Alla luce del sole. Come dimostra l’acclamato giro di inaugurazioni, nel maggio 2016, del principe Hamad Bin Nasser al-Thani, membro della famiglia reale e presidente della Qatar charity. Piacenza, Brescia, Mirandola, Vicenza, Saronno: lo sceicco taglia nastri e festeggia inaugurazioni di luoghi di preghiera e centri islamici finanziati dall’Ong. Al suo fianco ci sono sindaci, prelati e imam. Le fanfare erano suonate anche nel 2013, con l’inaugurazione della moschea di Ravenna. È la seconda più grande, dopo quella di Roma: costata 1,3 milioni di euro, Qatar Charity ha contribuito con 800 mila euro. Sarà un caso, ma proprio Ravenna è considerata la capitale italiana dei foreign fighter partiti per la Siria nel 2015.
Timeo Danaos et dona ferentes scriveva Virgilio nell’Eneide: «Temo i greci anche quando portano doni». L’ammonimento non sembra valere per la beneficenza emiratina. A Centocelle, popoloso quartiere di Roma, hanno comprato un ex mobilificio per quattro milioni di euro per trasformarlo in una moschea per 800 fedeli. A Bergamo, grazie alle caritatevoli premure di Doha, nascerà un’altra enorme moschea. Investimento previsto: cinque milioni di euro. A Sesto San Giovanni, la ex Stalingrado d’Italia, la costruzione invece è stata bloccata per l’opposizione del sindaco leghista, Roberto Di Stefano, indispettito dalla provenienza dei fondi.
Chi non ha mai deluso i qatarioti è il Sud. Tappeti rossi. Soprattutto in Sicilia, dove c’è totale comunione d’intenti con il Centro culturale islamico, affiliato all’Ucoii. Sono stati finanziati 11 progetti. Solo per costruire la Moschea della Misericordia, a Catania, Qatar Charity ha donato 1,7 milioni di euro. Del resto, come esplicitato durante un’inaugurazione a Messina, questi investimenti hanno un valore sia culturale sia storico. Servono a riportare simbolicamente l’isola ai tempi della dominazione araba, durata 264 anni: «Durante i quali la regione ha conosciuto sicurezza, stabilità e lo sviluppo di tutte le scienze umane». Un millennio più tardi, il minuscolo Qatar ci riprova. A suon di fruscianti petrodollari.