Giuliano, l’ex capo della Mobile testimone al processo sui Casalesi di Eraclea: «Associazione criminale già dal 2006»
L’attuale questore di Napoli: «Ritenemmo che fosse un’organizzazione radicata». Ma le intercettazioni caddero nel vuoto
«Sette mesi di attività e intercettazioni tra 2006 e 2007 ci avevano fatto ritenere che esistesse a Eraclea un’associazione criminale che avesse potenti ramificazioni nell’economia e la pubblica amministrazione locale, con condotte documentate nei confronti dell’allora sindaco Graziano Teso: una torsione amministrativa a favore di Luciano Donadio e Graziano Poles (nella vendita dell’hotel Victory, ndr)», e «una serie di comportamenti gravemente intimidatori (....) indicativi di una criminalità organizzata di tipo mafioso».
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Due vecchie indagini “sospese”
Così, giovedì in aula bunker, si è espresso Alessandro Giuliano: oggi questore a Napoli e tra il 2004 e il 2009 capo della Squadra Mobile di Venezia. A chiamarlo al banco dei testimoni, nel corso del processo ai cosiddetti “casalesi di Eraclea” sono stati gli avvocati di Donadio, Renato Alberini e Giovanni Gentilini: per la difesa nessuna associazione mafiosa ha operato a Eraclea, tanto che la Procura non diede corso a quelle prime indagini, né ci furono denunce della società civile. Per due volte Donadio & Co. erano stati intercettati senza conseguenze, prima che i pm Terzo e Baccaglini riprendessero in mano l’indagine, arrivando agli arresti del 2019 e al maxi processo in corso. Era accaduto nel 2002 – come ha raccontato in apertura di udienza il sostituto commissario Francesco Protopapa – quando la Mobile indagò dopo l’attentato all’immobiliare Emiro: «Chiedemmo alla Procura una misura cautelare per associazione per delinquere con metodi mafiosi nei confronti di sei persone, tra le quali Donadio e Buonanno». Che ne è stato, chiede la difesa? «Non ci è stato comunicato più niente e sono state sospese anche le intercettazioni: non so perché». Che ipotesi criminosa avevate formulato? «Il signor Donadio era visto come personaggio primario tra i suoi conoscenti, che mettevano in opera pressioni verso altri imprenditori con metodi minacciosi». Avete colto fenomeni di estorsione diffusa, pizzo, racket, chiede la difesa? «No».
Il latitante cercato a Eraclea
Poi la testimonianza del questore Giuliano, che ha ricordato come nel febbraio del 2006 l’allora pm della Dda di Napoli Raffaele Cantone «ci chiese di fare accertamenti sui rapporti tra Raffaele Buonanno e Luciano Donadio e l’allora massimo latitante dei casalesi, Antonio Jovane. A giugno fu poi dato fuoco all’auto del consigliere comunale Burato: una fonte confidenziale ci disse che l’attentato era da ricondursi a diatribe tra la vittima e l’allora sindaco Teso, strettamente collegato a Donadio e chiamava in causa anche Graziano Poles». Sono emersi interessamenti di Donadio e Buonanno nei confronti del latitante Jovane, chiede la difesa? «No, non abbiamo avuto conferma», risponde il questore, che poi dice fermo: «A nostro giudizio era ipotizzabile una serie di reati di associazione di tipo mafioso, corruzione di pubblici amministrazioni, intimidazioni che abbiamo documentato». Episodi specifici? «Minacce gravi a un debitore, al collaboratore Sgnaolin, notizie di operai e capicantiere malmenati perché non rispettavano le direttive di Donadio che gestiva una rete di società, minacce per interposta persona a un dirigente sportivo perché non faceva giocare il figlio a calcio. Non una condotta normale», risponde Giuliano, «sentivamo chiedere denaro a persone con minacce di morte». «In quei sei mesi», aggiunge, «abbiamo visto un collegamento stretto con la criminalità casalese, attraverso il sostegno economico a un detenuto per omicidio come Daniele Corvino, tramite soldi alla moglie – per nostra esperienza classica manifestazione di solidarietà mafiosa – e per essere andato a Natale a Casal di Principe perché tutti sapessero che era stato arrestato per usura e non per droga». Anche nel 2007, la richiesta di proseguire le intercettazioni cadde nel vuoto.
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Giornalisti ” fuori”
L’udienza si è aperta a sorpresa con la comunicazione ai giornalisti – dopo oltre 120 udienze pubbliche – di non poter assistere al processo giovedì e il 9 marzo perché “incamera di consiglio”, come da ordine firmato dal questore Masciopinto. Immediata la protesta dei cronisti e la segnalazione al presidente del Tribunale Manduzio, che - senza colpo ferire - ha dichiarato come sempre l’udienza aperta. «Un fraintendimento», ha poi commentato l’ufficio di gabinetto.