L’astronauta Nespoli a Geografie: «Ho lasciato la strada che avevo preso e sono andato nello spazio»
foto da Quotidiani locali
«Da ragazzo ho preso il mio sogno e l’ho messo nel cassetto, giudicandolo irrealizzabile. Da un lato, non avevo coscienza delle mie capacità, dall’altro non credevo di aver la forza sufficiente per cercare di compiere il grande passo. Mi trovavo, insomma, in una situazione comune a quella che oggi vivono molti adolescenti, che guardano il futuro e lo vedono brutto, buio».
Alla fine, però, Paolo Nespoli ha scoperto «che le cose impossibili non si possono fare, ma, ogni tanto, qualcuno ci riesce».
Lui è riuscito nell’impresa. È diventato astronauta e, sabato, a Monfalcone Geografie, alle 18, in piazza della Repubblica, presenterà il suo libro “L’unico giorno giusto per arrendersi” (Mondadori, pagg. 216, euro 19,50). Il testo ha al centro la vicenda di Manlio Santachiara, un astronauta in pensione, e di Stella, una ragazza, figlia di una sua vecchia amica, che ha appena compiuto diciott’anni, ma si trova persa nella vita: ha un rapporto strano con la famiglia, non sa cosa fare da grande e arriva persino a infliggersi punizioni corporali. Nespoli ne parlerà assieme a Sara Del Sal, mentre Ottavia Fusco Squitieri si occuperà delle letture.
Nespoli, quando ha deciso di fare l’astronauta?
«L’idea è nata da bambino. Tutti noi, negli anni Sessanta, guardavamo infatti gli astronauti americani e sovietici che si sfidavano nella corsa verso la Luna. Da grandi volevamo essere come loro».
D’accordo, ma al di là della moda del tempo, cosa l’ha spinta a intraprendere questa professione?
«Siamo davvero soggetti all’ambiente che ci sta attorno. Oggi, chiedendo a un bambino cosa vuole fare da grande, in molti rispondono lo chef, il calciatore, il cantante, perché sono lavori che vengono ritenuti di successo».
È soddisfatto, comunque, di aver fatto l’astronauta?
«La passione mi è venuta da bambino, ma poi ho avuto bisogno di tempo per capire se l’idea era fattibile. Oggi, quando vedo i ragazzi li invidio: da una parte hanno davanti un futuro, dall’altra devono trovare la strada giusta e non sempre quella che si vuole percorrere è facile. Ci vuole impegno, bisogna mettersi in gioco».
Qual è la prova più difficile che ha dovuto superare?
«Quando ho dovuto decidere di lasciare la strada che avevo intrapreso per provare a realizzare quello che sembrava un sogno impossibile. In seguito, mi è capitato di sentirmi poco rispondente alle richieste che l’ambiente mi faceva, ma poi scoprivo di avere le caratteristiche per poterle soddisfare».
A quale strada si riferisce?
«Facevo il liceo scientifico e avevo maturato che il sogno di fare l’astronauta non si poteva avverare. Allora ho cominciato a fare una carriera diversa. Sono stato chiamato per l’anno di leva obbligatorio e, alla fine, ho deciso di rimanere nell’esercito. Solo dopo parecchi anni mi è tornata l’idea di realizzare il sogno che avevo da bambino. Avevo ormai la consapevolezza che potevo cimentarmi anche con le cose più strane e che riuscivo a farle: con questo bagaglio di conoscenze, ho lasciato l’esercito per acquisire le qualifiche che mi hanno permesso di affrontare il bando di concorso per diventare astronauta».
Oriana Fallaci è stata importante nel farle intraprendere la sua attività.
«Sono entrato in contatto con lei quando ero nell’esercito. Da ragazzo, era uno dei miei idoli. Ci siamo trovati bene, siamo passati a un rapporto più personale, che ci ha portato a scambiarci confidenze e a diventare amici. Proprio durante una lunga discussione, mi ha chiesto cosa volessi fare da grande. Quindi, mi ha scosso dal torpore, mi ha spronato. Poi, anche altri sono stati importanti nel farmi prendere questa decisione, ma non i miei genitori: allora, pensavano che non avrei fatto nulla nella vita, mi ritenevano incontrollabile. Eppure, lavorando nell’esercito una certa disciplina dovevo pur averla».
Quanto tempo ha passato nello spazio?
«Per essere precisi, 313 giorni, nell’arco di tre missioni diverse. Una di costruzione della Stazione Spaziale Internazionale e due di lavoro sulla stessa Stazione. La prima, nel 2007, sullo Space Shuttle, era di corta durata. Nelle altre due, invece, il taxi che mi ha portato sulla Stazione era la navicella russa Soyuz: in questi casi, sono stato nello spazio rispettivamente sei e oltre quattro mesi».
Cosa le mancava della Terra?
«Gli odori, i sapori, il dialogo con la gente, la natura, fino al sedersi, allo sdraiarsi, al dormire. Dico spesso che, rimuovendo la forza di gravità, si diventa extraterrestri: occorre imparare a vivere e a gestirsi in modo diverso. Per contro, ci sono molti aspetti da scoprire e che risultano simpatici, divertenti. Insomma, quando ero nello spazio mi mancava la Terra e viceversa».
Com’è la vita di un astronauta nello spazio?
«La Stazione Spaziale è un ambiente isolato, confinato, ristretto: è davvero fuori dal mondo. Per riempirlo si ha allora bisogno di determinate capacità tecniche perché, là dentro, si è davvero l’unica forza lavoro disponibile».
Le pesa non fare più l’astronauta?
«In prima battuta direi di no. Poi, però, penso che la sensazione di un ambiente dove non c’è più la forza di gravità mi manca, come la possibilità guardare la Terra da lassù. Alla fine, comunque, invece di lamentarmi perché mi manca qualcosa, preferisco sentirmi fortunato per aver fatto un lavoro che sembrava impossibile».