Distrofia muscolare, trovata dopo 36 anni una terapia genetica per combatterla
Era il 31 luglio 1987 quando la rivista Cell pubblicò un articolo che sarebbe destinato a restare nella storia della genetica. Un gruppo di ricercatori di Harvard era finalmente riuscito a identificare il gene responsabile della distrofia muscolare di Duchenne, una malattia ereditaria devastante che porta prima alla carrozzella e poi alla morte i bambini maschi che ne sono colpiti.
Al tempo non si poteva sequenziare il genoma, e l’identificazione del gene era stato il frutto di un certosino lavoro di mappatura dei difetti genetici all’interno dei cromosomi. Prima, i ricercatori si erano resi conto che si doveva trattare di un gene localizzato sul cromosoma X, il che spiega perché sono colpiti solo i maschi (nelle femmine il gene difettoso è mascherato da una copia normale sull’altro cromosoma X). Poi, andando progressivamente a restringere la zona in cui il gene doveva essere localizzato, si erano imbattuti in un gene enorme, il più grande del Dna umano, con oltre 3 miliardi di nucleotidi. La proteina codificata da questo gene fu chiamata distrofina, e si scoprì che serve ad ancorare la membrana esterna delle cellule muscolari alle strutture interne che ne forniscono all’impalcatura. Quando la distrofina è mutata, l’ancoraggio della cellula all’ambiente circostante viene a saltare, e la contrazione muscolare diventa inefficace. Dopo un po’ le fibre muscolari muoiono e non vengono rimpiazzate. Se ne accorgono per primi i genitori perché intorno ai 2-3 anni i loro bambini progressivamente perdono la capacità di camminare e poi di stare in piedi, finiscono in sedia a rotelle, poi non riescono più a respirare e alla fine in maniera disperata muoiono. Ora che con le terapie convenzionali di supporto si riesce ad allungare la vita, la morte sopraggiunge intorno ai 30 anni, molto spesso perché è il muscolo cardiaco che non riesce più a funzionare. La malattia colpisce circa 6 bambini ogni 100mila nati.
Quando il gene fu identificato nel 1987 ebbi l’occasione di parlare di questo eccezionale successo della genetica a un piccolo convegno di pediatria al Burlo Garofolo a Trieste. Ricordo che terminai la mia relazione con una avventurosa predizione: ora che il gene era stato clonato, non sarebbero passati più di 5 anni senza che una terapia genica fosse sviluppata. Mai previsione fu più incauta. Di anni ce ne sono voluti ben 36 perché la profezia si avverasse: è stato solo il 12 maggio scorso che la FDA negli Stati Uniti ha approvato la prima terapia genica per la distrofia muscolare, sviluppata dall’azienda Sarepta Therapeutics. Il gene della distrofina è talmente grande da non poter essere incluso nei piccoli vettori virali che normalmente funzionano per i muscoli, chiamati AAV. Circa 15 anni fa, però, Jeff Chamberlein dell’Università di Washington a Seattle aveva dimostrato che un vettore AAV che porta una versione miniaturizzata del gene della distrofina, chiamata microdistrofina, poteva bastare. Questo AAV non corregge la distrofia completamente, ma almeno trasforma una malattia mortale in un difetto più tollerabile. Nei topi e in un paio di razze di cani che spontaneamente sviluppano una distrofia muscolare simile a quella umana, l’AAV con la microdistrofina funziona accettabilmente bene. Sulla base dei risultati negli animali, 3 aziende negli Stati Uniti e Genethon (l’omologo di Telethon) in Francia avevano iniziato a sperimentare la terapia nei bambini. Sarepta ora è arrivata per prima al traguardo.
Il momento di questa approvazione da parte dell’FDA sembra da celebrare, ma in realtà non mancano preoccupazioni e polemiche. Il problema è che del vettore AAV con la microdistrofina ne occorrono dosi enormi: per correggere il difetto viene iniettata una quantità di particelle virali che corrisponde a più di 10 milioni di volte il numero delle fibre muscolari che devono essere curate. Altre sperimentazioni con i vettori AAV hanno mostrato che dosi di virus così alte non sono scevre da effetti collaterali, che possono essere talmente gravi da portare alla morte. E poi l’effetto progressivamente scompare nel tempo, perché i vettori AAV vengono persi durante il processo di rigenerazione muscolare. Alla riunione del 12 maggio, l’approvazione è stata raggiunta con 8 voti a favore e 6 contrari, e con la condizione che il prodotto non possa essere commercializzato fino a che una sperimentazione più estesa, attualmente già in corso, non provi che funzioni e sia sicuro.
Sono diversi gli insegnamenti che possiamo trarre da questa storia. Primo, che scoprire come funziona una cosa (trovare il gene che causa una malattia) è infinitamente più semplice di riparare la medesima cosa (trovare una terapia). Secondo, che l’orologio del bisogno dei pazienti è sempre più veloce, spesso troppo veloce, di quello del progresso della medicina. Terzo, che nella scienza bisogna essere perseveranti e ostinati, e contare su progressi incrementali. Con la distrofia muscolare, il traguardo finale non l’abbiamo ancora centrato, ma una tappa miliare, quella sì, l’abbiamo almeno raggiunta.