Mimmo Lucano, l’ex giudice: «Nemmeno per Mafia Capitale una condanna così dura»
Una condanna durissima. 13 anni e 2 mesi di reclusione per una lunga serie di reati: associazione a delinquere, abuso d’ufficio, truffa in danno dello Stato, peculato, falsità ideologica, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, sta pagando un prezzo molto alto per il suo progetto di accoglienza dei migranti.
Troppo alto, secondo Livio Pepino, ex giudice e già membro del Csm sull’arresto dell’ex sindaco, ma anche direttore editoriale di Edizioni Gruppo Abele. «Si tratta di una sentenza inadeguata a descrivere quello che è accaduto, e questo è l’aspetto più grave, seguìto a cascata dall’entità della pena», ci spiega.
Lucano è responsabile di irregolarità e forzature di carattere amministrativo.
«Ed è un fatto risaputo, pacifico. Lucano lo ha sempre ammesso, tanto che il suo ultimo libro, pubblicato da Feltrinelli, si chiama “Il fuorilegge”. Non lo nega nessuno. Ma l’interessato ha sempre precisato che queste forzature e irregolarità si collocano in un progetto di accoglienza che, come Lucano ha sempre detto, “se avessi seguito i dettami formali e burocratici, non sarei mai riuscito a realizzare”. Se riceveva quote per 50 migranti e ne arrivavano 70, lui destinava i denari a 50 più 20 persone, e questo può avere anche una rilevanza penale. Ma il problema è un altro».
Quale?
«Che nel caso di Riace, fin dalla imputazione iniziale, il controllo non è stato focalizzato su eventuali irregolarità penalmente rilevanti. Qui l’ipotesi di partenza è che si trattasse di una organizzazione a delinquere, non di un progetto per far rinascere un paese e per accogliere. Questo è il vizio d’origine di questo processo, che poi si è riflesso in tutte le tappe successive. Lucano è stato assoggettato a misura cautelare, ma nella mia esperienza questi processi si fanno a piede libero. Per anni, inoltre, sono state fatte intercettazioni a lui e al suo entourage, quasi fosse la Primula Rossa. Una condanna di questo genere non è stata riservata nemmeno ai condannati di Mafia Capitale, e neanche a Luca Traini, condannato per strage. Questa è una pena che, in Italia, si dà, in abbreviato, per omicidio. Questa è una sentenza che pretende di riscrivere in chiave criminale una storia positiva di accoglienza. E lo ritengo molto grave».
Si aspettava una sentenza di questo tipo?
«No: mi aspettavo una sentenza assolutoria o di condanna per alcuni specifici episodi. Si poteva anche ritenere che l’irregolarità amministrativa finisse nel penale. Ma non mi aspettavo che fosse condannata l’intera esperienza di Riace. Non certo, poi, che fosse considerata associazione a delinquere».
Nei successivi gradi di giudizio ci sarà possibilità di ribaltare il verdetto.
«Sì, la possibilità c’è. Nella storia di questo processo, l’associazione a delinquere era già stata ritenuta non provata dal giudice per indagini preliminari, che rigettò la richiesta del pm. La questione è aperta, e nei prossimi gradi giudizio potrà essere ribaltata: è possibile e auspicabile, per fare in modo che venga restituita alla vicenda, anche sotto il profilo giudiziario, la sua portata reale».
Secondo lei è giusto commentare questa sentenza e, eventualmente, anche indignarsi?
«Se non si tratta di insulti o invettive, la critica alle sentenze è fondamentale nelle democrazie. La magistratura gode di particolari garanzie di indipendenza. Ma il fatto che nessuno possa dire ai magistrati cosa devono fare rischia di sfociare in una forma di arbitrio, se non c’è il contrappeso dell’opinione pubblica. La magistratura per prima dovrebbe auspicare un confronto dialettico, per misurare le valutazioni esterne del suo operato e confermare o, eventualmente, rivedere le sue posizioni».
Perché l’esperienza di Riace è stata considerata un’organizzazione criminale?
«Questo è il cuore del problema. La magistratura risente dell’ambiente circostante e noi, da anni, viviamo in un clima di criminalizzazione dei migranti e di chi si occupa di loro. C’è una sorta di insofferenza nei confronti di questo mondo».
Perché questa durezza nei confronti di Lucano?
«Perché è diventato un simbolo ed è stato quello che si è esposto di più».
Si aspetta qualche sorpresa dalle motivazioni della sentenza (che arriveranno a fine dicembre)?
«No: il dibattimento è stato pubblico, e gli elementi su cui il tribunale giudicherà sono già noti, sono già emersi. La motivazione servirà a spiegare l’interpretazione del tribunale, ma escludo che emergano elementi che non conosciamo».
Lei conosce Mimmo Lucano. Che tipo di persona è?
«L’ho conosciuto a Riace e credo di poter dire che è un uomo animato da un entusiasmo e un altruismo assolutamente rari. Questa passione lo può portare a imprudenze, ma io credo che questo sia un pregio, non un difetto. La convinzione che ci sia una necessità di intervenire nei confronti degli ultimi è la cifra di Lucano, che ha sempre pensato a tutti tranne che a se stesso, in un Paese in cui l’arricchimento personale è una delle molle più significative. Se le irregolarità ammnistrative – anche di rilevanza penale – ci sono state, sono state realizzate non per vantaggi personali, ma per un’accoglienza migliore».