Panatta, Wimbledon, il carcere: Monica Giorgi, una vita da romanzo
«Ero sovversiva nelle idee, mai nelle azioni. Il tennis femminile non contava. Giocavo con Adriano, un amico vero. E litigai con Barazzutti quasi alle mani»
LIVORNO. Monica Giorgi parla davanti al mare di Antignano. E suoi occhi indugiano spesso su quella vertigine azzurra. A Livorno torna spesso, e l’amore per la sua terra di origine non ha bisogno di parole.
«Eppure qui i problemi non sono mancati. Pensi che nel 1960, a 14 anni, vinsi la Coppa Lambertenghi che era un campionato italiano per ragazzi. Tornai a Livorno e proprio il “Tirreno” venne a casa mia per farmi delle foto e parlare con i miei genitori. Che raccontarono come al circolo di via Roma, dove giocavo, i soci pensavano più a giocare a carte che al tennis. Il circolo mi buttò fuori, ero disperata. La mia fortuna fu che un club di Lucca, il Cucirini, mi volle. Andai là, e la mia carriera è decollata. A Livorno però mi allenavo quando fui più grande, a Villa Lloyd col maestro Nardi, curavo molto la parte atletica perché il mio gioco era tutto attacco e velocità. E davanti avevo il tennista dal quale rubare i segreti: Giuliano Fanfani, che entrò anche in prima categoria: il mio modo di concepire il tennis ha la sua sagoma».
Negli anni 60-70 il movimento femminile non era proprio al centro dei pensieri della Federazione…
«Anzi, le donne erano proprio considerate una palla al piede. Pensi che nel docufilm in onda in questi giorni su Sky, al quale ho partecipato, non compaiono spezzoni filmati delle mie partite perché semplicemente non esistono. Nel tennis in quegli anni c’era un atteggiamento maschilista e misogino».
Lei comunque è riuscita a giocare a Parigi e Wimbledon, ed a passare anche diversi turni…
«Venivano invitate le prime tre-quattro giocatrici di ogni nazione. Io ero una specialista del doppio e del misto. La Slagenzer, che produceva le leggendarie racchette, mi riforniva e io per arrotondare le rivendevo anche a Livorno. A Londra ci davano 800 sterline come ospitalità, e non erano poche. Questo mi consentiva anche di mantenermi agli studi. Poi ci fu la parentesi di Tokyo, le Universiadi del 1967, uno dei momenti più belli. Vinsi due argenti in doppio, nel misto con Giordano Maioli. I giapponesi mi adottarono, finii anche sui giornali».
Che giocatrice era, tecnicamente, Monica Giorgi?
«Sempre all’attacco, meglio in doppio che in singolare. Ero veloce, mi allenavo molto, ero brava a rete. Nel doppio misto, ad esempio, dove le donne raramente stavano a rete, io tagliavo il campo per colpire di volo».
Quale giocatrice le assomiglia oggi?
«Mi è piaciuta molto Roberta Vinci quando ha battuto la Williams. Nel suo attacco in back ho rivisto qualcosa di me».
Il suo volto è tornato familiare al grande pubblico con il docu-film di Sky ”Una squadra“ sugli anni d’oro della Davis. Perché hanno scelto lei come volto femminile?
«La storia è costruita sulla final di Santiago che divenne un caso politico, forse hanno scelto me perché ho sempre fatto delle scelte politiche. Ho parlato dell’importanza delle azioni simboliche, come quella del 1972 a Johannesburg, in Sudafrica, quando scesi in campo con la maglietta con i due piedi neri e i due bianchi, posizionati inequivocabilmente in un atto sessuale. C’era l’apartheid e quella scelta, che per me era doverosa, fece molto scalpore. Fui squalificata per due anni».
Adriano Panatta ha usato parole di grande affetto verso di lei. L’ha definita coltissima, provocatrice e sanguigna come tutti i livornesi…
«Adriano è un amico. Mi invitava in Sardegna sulla barca di Lea Pericoli, andavamo a Porto Rotondo. Nel 1982, quando uscii dal carcere, fu uno dei primi a farsi vivo per aiutarmi. Insieme abbiamo giocato nel misto, si arrabbiò perché lui era Panatta e voleva chiudere i punti a rete e io invece intervenivo con il colpi di volo. «Qui lo smash lo faccio solo io», diceva. Ma so che mi ha sempre voluto bene. Quando ero in difficoltà e lui aveva un’azienda di confezioni sportive voleva regalarmi tutto, mi disse “scegli quello che vuoi“».
Lea Pericoli è un’altra persona importante della sua vita…
«Siamo sempre state diverse, lei era un simbolo di eleganza, sempre perfetta. Eppure mi è sempre stata amica, ricordo che dopo il carcere mi portò una copia del Giornale di Montanelli dove aveva messo dei soldi. Ci siamo sentite di recente, mi chiama ancora Monicaccia…».
E gli altri della Davis?
«Devo dire di aver sempre preferito Zugarelli, forse perché era un figlio del popolo, aveva il tennis grintoso che piaceva a me. Barazzutti lo ricordo soprattutto per una litigata sulla morte a Milano dell’anarchico Pinelli, ci venni quasi alle mani...»
Nella vita di Monica Giorgi è arrivato,a un certo punto, il processo e l’arresto. Dal campo da tennis al carcere. Che ricordi ha adesso di quegli anni difficili?
«Ci furono delle provocazioni, furono usate delle frasi di alcuni pentiti per tirarmi dentro a cose che non ho mai fatto. Sono stata condannata, due anni in carcere due anni tra Livorno, Messina e Reggio Emilia. A Livorno a volte era anche divertente, quando arrivava la sigarettaia, lo ricordo ancora. Poi sono stata assolta e quando sono uscita mi hanno aiutati gli amici di sempre, nacque un comitato di solidarietà. Posso dire di essere stata sempre “sovversiva” nelle idee, sì, ma di aver nemmeno pensato a fare male a qualcuno, non è nella mia natura».
E Livorno?
«Ci sono nata, ne sono innamorata. Da tanti anni ho scelto di vivere altrove (in Svizzera, dove prende ancora la racchetta in mano), ma come fai a stare troppo lontano da questo mare…». E guarda ancora l’azzurro.