Beit Jala, Cisgiordania
Questo articolo è pubblicato sul numero 26-27 di Vanity Fair in edicola fino al 6 luglio 2021
Ogni tanto qualcuno mi domanda: ma un libro bello, un libro veramente bello che hai letto? E io, dopo qualche secondo, rispondo che, oddio, è una domanda difficile. Ma come? Leggi tanto, scrivi di libri. Sì, dico, ma mi passa per le mani di tutto, mi perdo, e così, su due piedi… L’altra sera ho risposto all’istante: te ne dico uno bello, bellissimo, ha un titolo difficile, quasi impronunciabile: Apeirogon (Feltrinelli). È bellissimo, ma è doloroso – ma i libri belli non è detto che siano allegri, no? Ho detto che è la storia di due padri. Due padri che hanno perso entrambi una figlia. Uno israeliano, uno palestinese. Non so se ce la faccio a leggerlo, mi ha detto la persona che avevo davanti. Ti capisco, ho risposto, e sono andato avanti: uno perde la figlia a causa di un proiettile di gomma partito dall’arma di un militare israeliano, l’altro la perde in un attacco terroristico. «Bassam e Rami giunsero gradualmente a capire che avrebbero usato la potenza del loro dolore come arma», dice lo scrittore, che si chiama Colum McCann. Ah, è una storia vera. È la storia di due uomini che capiscono che vivere, avere vissuto lo stesso dolore dovrebbe unirli, non dividerli. È come un poema in prosa: un capitolo di una riga, un capitolo di venti, uno di cento. In totale sono mille e uno, come le mille e una notte. Il capitolo 500, lunghissimo, dice: «E dopo eccomi seduto in macchina a piangere contro il volante. Ti ricordi tutto, ogni minima cosa. Abir amava disegnare. Le piacevano gli orsi e le piaceva il mare. Infilava sempre una matita nell’angolo della bocca. Nei miei sogni la porto al mare e lei corre lungo il molo. Mostratemi un padre al mondo che non desideri portare sua figlia al mare… Ma rifiuto di essere una vittima. Una decisione che ho preso molto tempo fa. C’è una sola vittima in vita ed è l’uomo che ha ucciso mia figlia».
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