«La vaccinazione è una responsabilità collettiva»
![](https://www.panorama.it/media-library/eyJhbGciOiJIUzI1NiIsInR5cCI6IkpXVCJ9.eyJpbWFnZSI6Imh0dHBzOi8vYXNzZXRzLnJibC5tcy8yNjgxNzQwMi9vcmlnaW4uanBnIiwiZXhwaXJlc19hdCI6MTY2Nzc2MDU2M30.Pif-ofT8BBNyCizNuF9g5jZehbHhTJJHXJebnvjQck8/image.jpg?width=1245&coordinates=0%2C257%2C0%2C117&height=700)
I pazienti vogliono - sempre - risposte ai loro problemi. I dottori ostentano - spesso - false sicurezze. Così Daniele Coen, ex responsabile del Pronto soccorso di un grande ospedale, racconta in un libro l'imperfezione della conoscenza scientifica. Vaccini compresi.
Non lo so». Difficile, per un medico, pronunciare queste parole. E per un paziente, sentirle ammettere. Per tanti motivi. I dottori cercano, vogliono e devono (è il loro mestiere) dare risposte e risolvere problemi. E i malati hanno, su questo, immense e ostinate aspettative.
Però. In medicina, da sempre, anche in quest'epoca di progressi e meraviglie, sono più i dubbi che le convinzioni. Più le aree grigie che il bianco e nero. Più i dilemmi che le certezze. Solo che, come afferma Daniele Coen, scrittore ed ex direttore del Pronto soccorso dell'ospedale Niguarda di Milano (nelle cui corsie ha trascorso 15 anni), «la cultura medica manifesta un profondo fastidio a occuparsene». E su questa negazione collettiva, spesso inconscia, della complessità del sapere medico e dell'imperfezione di ciò che si sa ha scritto un saggio che si legge d'un fiato, pieno di riflessioni, storie, dati, studi, casi clinici - compreso il suo. Titolo: L'arte della probabilità (Raffaello Cortina editore). Dove si parla di tutto quello che ci tocca da vicino, dal mal di schiena al colesterolo alto, dai farmaci ipertensivi ai vaccini anti-Covid, e che riguarda la conoscenza scientifica nel suo complicato e infinito procedere. Un libro per tutti i sani, per tutti i pazienti e, come scrive Coen, «per tutti i medici consapevoli e di buona volontà».
Intanto com'è che dopo una vita in corsia continua a scrivere sui limiti della medicina, perché non un bell'elogio?
«Al di là dei successi della medicina, perché vorrei che il rapporto con medico-paziente fosse paritetico, che le scelte venissero fatte insieme. Con i miei libri cerco di gettare un ponte fra medici e malati, di far capire che la medicina è complessa, e riconoscerne le incertezze può aiutare a prendere decisioni migliori».
A proposito di incertezze, quali sono i timori di chi viene a farsi vaccinare ma magari non è del tutto convinto?
«La paura più grande continua a essere quella delle trombosi: la gente si preoccupa poco degli effetti collaterali a breve termine, anche importanti o fastidiosi, ma teme questo evento estremamente raro. Alla fine i rifiuti sono pochi ma richiedono pazienza, discussione, fatica e tempo per superare le resistenze».
Voi medici di dubbi sui vaccini non ne avete?
«Da un lato c'è la certezza che questa sia la cosa giusta da fare, dall'altro la consapevolezza di non sapere tutto perché la conoscenza è in continuo divenire. E di dubbi ne abbiamo avuti, certo. Ci sono stati periodi in cui i vaccini a vettore virale non venivano offerti a persone con problemi minori come l'ipotiroidismo, oggi si fanno anche ai 90enni. A me viene male quando devo dare un vaccino ad adenovirus a un 85enne in carrozzina, e a volte forzo un po' le indicazioni. I grandi anziani sono per definizione immunodepressi, per loro è più indicato quello a Rna».
Di fronte a un camice bianco, che si tratti di vaccini o di terapie, il paziente non ha un grande margine di manovra...
«Vero, però ci sono domande semplici ma importanti che si possono fare: perché mi prescrive questo esame, cosa cambia se non lo faccio, esistono alternative? Poi è chiaro che certe scelte sono obbligate, se in pronto soccorso arriva uno che perde sangue dopo una martellata in testa c'è poco da discutere. Ma altre situazioni sono assai più sfumate, ed è lì che noi dobbiamo raccontare ciò che sappiamo o ignoriamo».
Per esempio?
«Spesso il medico non ha una chiara idea numerica, e mi ci metto dentro anche io, su quale sia il vantaggio reale di un certo intervento o terapia. Molti danno l'antibiotico per la tonsillite, qual è il beneficio? Di quanto durerà meno la tonsillite? Io decido di curare il tuo colesterolo, la tua ipertensione o la tua osteoporosi, ma quanti ictus, infarti o fratture sto evitando in questo modo? Quante donne devo trattare per 10 anni con l'alendronato per impedire una frattura al femore? Non lo sappiamo».
Però tutto ciò viene ugualmente prescritto...
«Certo, le linee guida dicono che a una donna in osteoporosi si dà quel farmaco: è corretto globalmente, ma ogni singola paziente ne trarrà un beneficio diverso che ha il diritto di conoscere e di discutere con il medico».
Ecco, le linee guida: nel libro lei le mette un po' in discussione. Servono davvero?
«In parte sì, certo. Ma le raccomandazioni che ne stanno alla base hanno una forza molto differente una dall'altra: consigliano cose ben documentate così come cose meno certe che danno vantaggi modesti. Se alla fine si fa di tutte le erbe un fascio, addio! Leggendo l'anamnesi di chi viene a fare il vaccino vedo ultra 90enni che prendono ancora le statine per il colesterolo, e tanti altri medicinali di cui potrebbero fare a meno».
Ma se a un anziano togli un farmaco, prende paura...
«Non solo, si spaventa pure il medico: se gli tolgo la statina e dopo ha un infarto?».
Siamo tragugiatori compulsivi di pasticche, ma temiamo i vaccini. Non è un controsenso?
«Una cosa è prendere un farmaco per un problema che si ha, un'altra assumerlo per prevenire qualcosa: lì si innesca la paura di farsi del male curando una malattia di cui non si soffre. Del resto, la maggior parte delle persone il Covid non lo prenderà e non è facile far capire che la vaccinazione è una responsabilità collettiva».
All'inizio del libro lei racconta del suo mal di schiena, tutti le davano un consiglio diverso: cortisone, fisioterapia, shiatsu, chirurgia... Lei non ha fatto nulla ed è migliorato. Il corpo guarisce da solo?
«Che il corpo guarisca per conto suo è la ragione della fortuna di tante terapie inutili protratte per centinaia di anni. Come il salasso. Faceva solo danni, ma una grossa fetta dei salassati guariva lo stesso. La fisioterapia migliora il mal di schiena? Boh, forse, in alcuni pazienti... e lo stesso vale per la chirurgia, lo shiatsu, il cortisone. Le evidenza sono poche».
Nell'ultimo anno, con poche evidenze e tante incognite, virologi e medici ostentavano sicurezza.
«La scienza vive al confine delle certezze. Di fronte a un fenomeno nuovo, che sia un farmaco o un virus, cosa deve fare lo scienziato? Deve fare ipotesi partendo da conoscenze pregresse, e suggerire strategie di ricerca. Che non sono risposte certe, ma strumenti per arrivare a capire. Con il Covid, molti scienziati hanno dato opinioni e non fatti, ma se trasformi le tue ipotesi in certezze, rischi di sbagliare come tutti».
Certo, ma se un esperto risponde "non lo so" passa per emerito ignorante. E poi i medici faticano a mostrarsi insicuri. Autostima, presunzione?
«È difficile, almeno nella pratica clinica, perché comunque c'è un problema da affrontare, e il paziente deve uscire dal tuo studio con una risposta, qui e ora. Quindi il medico decide in scienza e coscienza, come si dice, ma deve avere consapevolezza dei limiti della risposta che sta dando. Solo il 50% delle decisioni che un medico assume ha un fondamento accertato. Ogni giorno io stesso offro consigli su cose di cui non sono del tutto sicuro. È di oggi: "Dottore, ho un polipino alle corde vocali, che faccio, mi opero?". La risposta più frequente è "dipende..."».
Una volta a tutti i bambini si levavano le tonsille, perché?
«Si toglievano per ridurre tonsilliti e recidive, intervento che, se pur cruento, funzionava. Oggi si operano solo in casi particolari, per il resto si prescrivono sciroppi antibiotici».
Qualche altro intervento rischioso o inefficace?
«Usiamo troppi antibiotici, troppo omeprazolo, troppi ansiolitici, troppi integratori e vitamine, facciamo troppe tac e risonanze per il mal di schiena, in ospedale lasciamo troppo a lungo gli anziani a letto, usiamo troppo spesso i cateteri vescicali…».
Ora tutti cercano di divinare la prossima pandemia.
«In realtà ne è già in corso un'altra, quella della resistenza dei batteri agli antibiotici. La cosa che deve far riflettere è che nell'ultimo anno le precauzioni prese per il Covid hanno fatto crollare le infezioni intraospedaliere semplicemente perché medici e infermieri si lavavano le mani ogni cinque minuti e mettevano le mascherine davanti ai pazienti. Vediamo di continuare così».
Lei, da medico, si fida delle aziende farmaceutiche?
«Condivido quello che dice Marcia Angell, che era il direttore del New England Journal of Medicine: le multinazionali cercano di convincerti che hanno i tuoi stessi obiettivi ma non è così, tu pensi alla salute dei pazienti loro - correttamente e inevitabilmente - a vendere il più possibile. Gli informatori scientifici portano anche dati utili ma vanno approfonditi».
Quanti medici lo fanno?
«Non quanti dovrebbero».
Un capitolo del suo saggio è «Dottore, ce la farò?». Di fronte a una domanda simile, voi medici rispondete o fate i vaghi?
«Quello che cerco di fare è adeguare le informazioni al desiderio di sapere del malato. Se è una persona razionale che ti dice "devo decidere una serie di cose, mi dica se ho il tempo", si risponde chiaramente pur non togliendo la speranza. Diamo le informazioni progressivamente, dando il tempo di metabolizzarle».
Una volta l'incertezza della prognosi era anche l'alibi per nascondere la verità...
«Quarant'anni fa andai negli Stati Uniti. Qui in Italia i medici non pronunciavano neppure la parola "cancro", si nascondevano dietro bugie come "lei ha una brutta bronchite". Là il medico entrava nello studio, diceva "Hello, mister Jones, abbiamo finito gli esami, lei ha un tumore al polmone con aspettativa media di vita di due anni, e non può essere operato. Arrivederci". Io restavo di sasso».
E i pazienti come la prendevano?
«Beh, il manager rispondeva "Doctor, I'm grateful, thank you", il chicano piangeva e urlava. Insomma, non si può non tenere conto della persona che hai davanti, né togliere brutalmente ogni speranza. E poi anche la peggiore prognosi può riservare sorprese».
Facciamo un'ipotesi. Le arriva un paziente che le dice «io volevo vaccinarmi ma dopo aver letto i suoi libri non mi fido più così tanto della medicina...». Lei che gli risponde?
«Che abbiamo i dati per affermare che i vaccini funzionano bene, e che questa malattia è molto preoccupante per chi se la prende. Quindi direi: "Si fidi di quello che la scienza ha documentato, ha scoperto e sa per certo. Non sarà tutto, ma è già tanto"».