Messico: la sconfitta della politica e lo strapotere dei narcos
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Patrimoni multimiliardari, interi Stati del Paese sotto «l'amministrazione» dei trafficanti, nuovi boss e inquietanti analogie con Cosa nostra. Su tutto una violenza senza limiti. Che le leggi del presidente López Obrador non riescono neppure a intaccare.
Due teste mozzate depositate da sconosciuti nelle urne elettorali a Tijuana, a un passo dal confine con gli Stati Uniti. È questa l'immagine più cruda delle elezioni dello scorso 6 giugno per eleggere sindaci, governatori e deputati in Messico, le più violente della storia con oltre 90 politici uccisi.
Nella città della Bassa California l'abitudine di decapitare chi fa uno sgarro contro i boss della droga è consolidata e a Tijuana Morena, il partito del presidente AMLO, così tutti chiamano Andrés Miguel López Obrador, ha stravinto. Ma con nessun effetto di dissuasione sulla mattanza. Qui la guerra tra il cartello di Sinaloa e il cartello Jalisco Nueva Generación (CJNG) è sempre più sanguinosa per le alleanze che ultimamente hanno delocalizzato la violenza nelle mani di gang locali. Il risultato di tale frammentazione del crimine è questa lunga scia di morti ammazzati. Non a caso lo scorso aprile l'ambasciata Usa aveva consigliato ai suoi funzionari di evitare determinate zone oltreconfine perché «a rischio», soprattutto dopo le minacce alle autorità locali da parte del nuovo cartello emergente, il CJNG appunto.
Trecentomila morti e 14 miliardi di dollari. Sono queste le due cifre da tenere a mente per capire il Messico di oggi. Le prime sono le vittime cadute dal 2006 da quando è cominciata la fallimentare «war on drugs», la guerra che il Paese ha dichiarato ai cartelli, senza di fatto cavare un ragno dal buco. I miliardi corrispondono invece all'ammontare stimato del tesoro di Joaquín Guzmán detto «El Chapo» che l'agenzia antidroga Usa, la Dea, da quando il boss del cartello di Sinaloa è stato condannato a New York due anni fa, sta cercando disperatamente di rintracciare ovunque nel mondo. Ma a interessare le massime autorità statunitensi è soprattutto l'eredita organizzativa e politica del Chapo, ovvero chi ha raccolto il suo testimone nel cartello di Sinaloa.
Bisogna partire proprio da questa eredità da spartire per comprendere come mai il narcotraffico tenga sotto scacco il Messico. Ismael «El Mayo» Zambada. È un altro nome da tenere ben presente, perché dopo l'ergastolo di Guzmán, oggi è lui il leader del cartello di Sinaloa, il gruppo di narcos più simile a Cosa nostra nel mondo per almeno due motivi. Primo per la presenza di una cupola a conduzione plurifamiliare, con un leader che, appena «cade», ha già pronto il proprio sostituto. Poi per i micro-cartelli divisi in zone geografiche che con alleanze sempre più locali svolgono una funzione analoga ai mandamenti mafiosi, eseguendo gli ordini che arrivano dal «Padrino», non a caso l'altro soprannome più usato da Zambada padre.
Ma ci sono altre strane coincidenze tra i boss di Sinaloa e Cosa nostra. Nel caso di Guzmán il soprannome El Chapo, «il piccoletto» che, tradotto in siciliano, suona come «'u curtu», lo stesso alias di Totò Riina. Per Zambada, invece, la capacità di fare accordi limitando quanto possibile lo spargimento di sangue che lo rende simile a Bernardo Provenzano, anche se è imprendibile come Matteo Messina Denaro.
La storia dei capi narcos è fatta soprattutto di canzoni, i narcocorridos, e di aneddoti raccontati come leggende. Secondo questi «miti» a volte il Chapo irrompeva con i suoi sgherri armati in qualche ristorante, lo faceva chiudere con i clienti all'interno e, dopo aver sequestrato loro tutti i cellulari, consumava il suo pasto. Poi, se ne andava... Zambada, invece, è molto più cauto, vive rintanato nella «sua» sierra e scende in città solo quando ha accordi da fare. Sulla sua testa pende una taglia di 5 milioni di dollari a chiunque passi informazioni utili per catturarlo. Il suo patrimonio stimato è di due miliardi di dollari, una miseria rispetto ai 14 del Chapo, anche se in realtà potrebbero essere molti di più.
Sia come sia, per la Dea oggi è lui il boss più potente tra Messico e Stati Uniti; mentre per il Dipartimento di Stato gestisce il traffico della droga in Arizona, in California oltre che a Chicago e, ça va sans dire, a New York, la città dove per la prima volta un pentito, Joe Valachi, fece il nome di Cosa nostra nel 1963.
Soprattutto Zambada ha un figlio Vicentillo, che è decisivo per comprendere i retroscena del cartello di Sinaloa e le sue relazioni di lunga data con la Dea. Infatti, secondo la testimonianza di Vicentillo al processo a New York del 2019, il Chapo prese contatti con l'agenzia americana quando era latitante nel 2007. Il figlio del Mayo ha confessato di aver utilizzato poi quegli stessi contatti, in seguito, per uscire dal cartello di Sinaloa guidato da suo padre e dallo stesso Chapo. Per questo organizzò un incontro tra i due. Il Chapo si offrì di facilitare il suo collegamento con la Dea. E gli disse che «il livello di Vicentillo come narcotrafficante all'epoca era considerato dagli Stati Uniti superiore a quello di suo padre Mayo Zambada e persino al suo, in quel momento», scrive il giornale messicano El Informador, «poiché Vicentillo dominava la città di Culiacán», la Corleone messicana.
Per il Chapo, «la Dea cercava la collaborazione di Vicentillo e soltanto la sua». Dal banco dei testimoni nel processo contro il Chapo, Vicentillo ha detto che ha approfittato di questi contatti per fornire informazioni sui suoi nemici, in modo che le forze di sicurezza glieli togliessero di mezzo.
«Era un obiettivo» ha confessato, per poi aggiungere di aver avuto incontri con la Dea fino a due ore prima del suo arresto, nell'aprile 2009, quando fu catturato dalle forze speciali messicane. Condannato a 15 anni di carcere, una pena resa mite grazie alla sua collaborazione con la giustizia americana, Vicentillo è uscito lo scorso aprile dal carcere. Per questo, si è subito guadagnato il soprannome di «traditore» tra i narcos. Stessa strategia seguita da un altro grande trafficante, Eduardo Arellano Félix e da Jesús Zambada, alias «el Rey», che è il fratello del Mayo. Entrambi oggi sono collaboratori di giustizia Usa e, si mormora, siano inseriti nel programma statunitense di protezione dei testimoni con tutti i benefici che ne conseguono.
Chi adesso potrebbe seguire la stessa strategia, fornendo dettagli preziosi su cosa resta dell'impero del Chapo, è Emma Coronel, sua moglie (l'ultima, visto che il boss ha confessato di avere almeno 23 figli con innumerevoli donne), che vanta una parabola da star di Instagram alle galere americane. Trentadue anni, ex Miss Durango ma nata negli Stati Uniti e, dunque, con doppia cittadinanza, la Coronel era stata catturata a febbraio all'aeroporto di Dulles, in Virginia.
Dopo un paio di mesi di carcere duro, lo scorso 10 giugno si è risolta a confessare al giudice di un tribunale di Washington. «Sì, ho collaborato con mio marito per distribuire droga negli Stati Uniti aiutandolo a importare 450 tonnellate di cocaina e 90 tonnellate di eroina. Sì, ho riciclato denaro sporco facendo da tramite tra Joaquim e i suoi soci. Sì, ho intrattenuto rapporti con il cartello di Sinaloa dopo che il Chapo è stato catturato in Messico». Ma perché diventare proprio ora collaboratrice di giustizia? Per tre ragioni. La prima è la vendetta, visto che durante il processo del 2019 suo marito ha confessato di averla tradita più volte. Inoltre ha influito il fatto che il regime dei supercarceri Usa non sia proprio il massimo per un'ex reginetta di bellezza come lei. Ad averla convinta definitivamente, però, è il rischio elevato di una condanna all'ergastolo.
Di certo c'è che il Messico sta diventando un problema sempre più grave per gli Stati Uniti sia a causa dell'immigrazione crescente sia per il boom della produzione del Fentanyl e per l'aumento della presenza di criminali cinesi che lavorano con i messicani, dato che le componenti chimiche per produrre l'oppiaceo sintetico che sta sterminando un'intera generazione negli Usa (quasi 100.000 morti l'anno) arrivano proprio da Pechino. Inoltre, a far acqua da ogni parte sono state le disastrose politiche di sicurezza di AMLO - criticato con durezza anche da una copertina dell'autorevole The Economist alla vigilia del voto perché la sua politica degli «abbracci e non più dei proiettili» dopo tre anni al potere, si è rivelata per quel che è: un fallimento.