Marine Le Pen e la normalità impossibile, la svolta istituzionale non paga
Francia, la leader anti-sistema paga alle urne la scelta di tenere posizioni più più moderate. E il suo partito crolla ovunque
Pochi giorni prima era lei, Marine Le Pen, a parlare delle regionali come di «un trampolino di lancio per le presidenziali del 2022». Allora i sondaggi davano il suo partito, il Rassemblement National (Rn), in testa al primo turno in cinque regioni su 13. Ora che le cose sono andate diversamente (e molto peggio), che la formazione di estrema destra non è riuscita a conquistare nessuna Regione e addirittura ha perso voti e terreno rispetto alle stesse elezioni nel 2015 (l’Rn è sceso da 358 consiglieri regionali a 252), la Le Pen sfoggia un disinteresse infastidito per la consultazione, ridotta a una sconfitta per tutti a causa dell’astensionismo (intorno al 66% nei due turni). Vuole voltare pagina, domenica sera ha dato appuntamento ai suoi elettori per le presidenziali. Avanti tutta.
In realtà non sarà così facile digerire la sconfitta. Anche nel partito qualcuno comincia a nutrire dubbi sulla sua strategia. A lungo si diceva che pesava su di lei inesorabile quel cognome, Le Pen, e il ricordo di un padre, che, tra le altre cose, arrivò a negare la Shoah. Fra gli analisti politici girava una storiella: al ballottaggio delle presidenziali, contro di lei può vincere chiunque, anche una capra con scritto sopra: «Non mi chiamo Le Pen». Per combattere contro l’«ostracismo» (lei lo chiamava così), è una decina d’anni che cerca di «dédiaboliser» se stessa e il partito: contrastare la demonizzazione. Ma oggi, all’indomani di queste regionali, c’è chi invece punta ormai il dito su un’eccessiva «banalizzazione».
Jean Messiha, alto funzionario che la Le Pen era riuscita ad arruolare, se n’è andato dal partito nei mesi scorsi, proprio perché deluso dalla standardizzazione di Marine. «L’Rn non fa più sognare», ha detto all’indomani delle ultime regionali. Eric Zemmour, possibile candidato sovranista alle presidenziali, dice che lei «parla ormai come Emmanuel Macron». È dopo la sconfitta del 2017 contro di lui che Le Pen ripensò la strategia. Lasciò al suo destino Florian Philippot, già consigliere preferito, che l’aveva trascinata verso posizioni anti-sistema e critiche della globalizzazione, perfino con qualche deriva «sinistrorsa». Da allora il suo posto è stato preso dal cognato Philippe Olivier, marito della sorella maggiore di Marine, Marie-Caroline. Lui, che è un esponente di vecchia data del mondo lepenista, l’ha riportata sui binari di un liberalismo più moderato. Adesso Marine non vuole più uscire dall’Unione europea, né dall’euro. Assicura che la Francia deve ripagare il debito pubblico (prima asseriva il contrario). Insiste ancora sulla volontà di abbassare l’età pensionabile ai 60 anni dagli attuali 62 (che già è ai minimi in Europa), ma precisa che per avere una pensione completa si debba disporre di 40 anni di contributi. E oggi fa la differenza tra l’islam come religione e l’islamismo politico e jihadista, che potrebbe sembrare qualcosa di scontato, ma che nella testa del francese medio non lo è per nulla.
Ecco, per tutto questo Le Pen avrebbe perso consensi, anche e soprattutto di quei gilet gialli anti-sistema, che in effetti alle regionali hanno disertato le urne. Il prossimo fine settimana si terrà il congresso nazionale del’Rn a Perpignan. Sarà lanciata la campagna di Marine per le presidenziali. Ma forse, anche in un partito monolitico e verticale come il suo, qualcuno avrà il coraggio di mettere sul tavolo la questione: andiamo avanti così? O si torna al lepenismo puro e duro? —
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