Te son talian? Il salumiere e il suo “volentieri”
TRIESTE Per noi ferraresi, l’Oltrepò è un indistinto universo veneto che presto travalica in un’altrettanto indistinta Germania (nel senso romano del termine) e dal punto di vista linguistico nulla ci infastidisce di più di tutte quelle vocali che i nostri vicini rodigini lasciano andare alla deriva del loro eloquio senza alcuna sponda consonantica a formare quel che a noi suona come un lamento di papero impaurito. Quando arrivai a Trieste mi aspettavo dunque di trovare lo stesso lamentoso squaquerare dell’ennesima Venezia, stavolta Giulia, ma subito mi accorsi che il triestino non era dialetto da uccelli anseriformi. “Mlechèrza”, “patòc”, “viz”, “mulza”, “bazilàr” mettevano in campo suoni che non avevano nulla a che fare con i “gato dito” e i “massa beo” dei polesani che venivano a passare la domenica pomeriggio a Ferrara per darsi un tono. Poi c’erano altre cose che non quadravano. Quando chiedevo al salumiere il baccalà mantecato che mi piaceva tanto, lui rispondeva “Volentieri!” e poi stava a guardarmi dispiaciuto come se toccasse a me incartarlo. E poi quel “te son taliàn?” con cui tutti mi interpellavano appena parlavo, lo sentivo quasi un insulto. Perché voi no? Mi veniva da chiedere, con tutto quello che avevamo speso di patriottismo per tenervi da questa parte della frontiera. Memore del “somaro” con cui mi apostrofava mio padre, quel “mulo” che tutti mi rivolgevano a ogni pié sospinto mi aveva fatto perfino temere che la mia reputazione scolastica mi avesse preceduto quando arrivai a Trieste negli anni Ottanta per iscrivermi all’università. No, il triestino era lingua altra, forse una prima forma di slavo che partendo da quell’italiano estremo si trasformava lentamente, un suono dopo l’altro. Per quello, fantasticavo, riuscivo ancora a capirlo: era appena agli inizi della sua degenerazione. Ogni passo avessi fatto verso la frontiera jugoslava, la comprensione si sarebbe lentamente spenta in me lasciandomi alla fine nel buio linguistico più totale. Ma qualcosa ancora non quadrava nel panorama linguistico di Trieste e qualcuno certo non me la raccontava giusta se già in Piazza Oberdan io non capivo la gente che aspettava l’autobus. Eppure non erano i pellegrini della stazione con fustini di detersivo in mano e valigie in testa. No, quella era gente comune, con la borsa della spesa e l’abbonamento dell’Acegat in tasca. Scoprii così che Trieste era una città doppia, bifronte, ma che la sua seconda faccia viveva nascosta, come quella della luna. Lo sloveno era lì, ma era una lingua di casa o di tribù, si parlava sottovoce, una strada sì e quella dopo no, serviva a riconoscersi più che a comunicare, una lingua del dissenso, dell’affermazione identitaria, che l’Italia proteggeva per dominare meglio, lingua contestata, esotica, rinchiusa come un animale nello zoo, ma per il suo bene, perché nessuno le facesse del male e non andasse perduta. Ma a me che venivo da fuori, questo sloveno che si sentiva a tratti parlare e che poi scompariva come il Timavo nelle viscere del Carso, pareva pretestuoso. Che lingua è se chi la parla tace? Perché avrei dovuto imparare una lingua da indiani d’America che quando provavo a usarla suscitavo solo risolini? Gli sloveni di qua mi rispondevano in italiano o addirittura in triestino. Quelli di là non rispondevano neanche. E poi mi parevano tutto un popolo di capricciosi, che un secolo prima non lo sapevano neanche di essere sloveni e quelli di loro che emigravano nel nuovo mondo, a Ellis Island dicevano di essere austriaci. Eppure quella piccola lingua di due milioni di persone che accanitamente non avevano voluto parlare né tedesco, né croato, era anche lì a Trieste, aveva la sua libreria, le sue scuole, il suo teatro, la sua pretesa di esistere. L’Università popolare propagandava corsi di serbo-croato e pensai allora che quella fosse una lingua più ragionevole da praticare. Vabbè magari costruzione artificiale, randello linguistico del titismo ma comunque la lingua di tutta la Jugoslavia, uno sforzo di travalicare le differenze in nome della comprensione fra i popoli. Ma la volta che mi azzardai a entrare nell’aula del cupo palazzo di Piazza Ponterosso mi parve di essere finito sul set di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e rinunciai. L’istinto mi guidò: oggi parlerei una lingua morta o da Lubiana a Skopje rischierei di prendere legnate a parlarla. Ma nell’Europa senza frontiere, le lingue lasciate finalmente in pace possono andare dove vogliono. E bisogna ora liberarle anche dall’onere di definire un’identità. È ora di rivendicare la libertà dalle grammatiche e di sfuggire all’identità opprimente che ci conferisce la nascita per andare verso un’identità mobile, che cambia col tempo. Per quanto ci succeda di mescolarci, possiamo stare tranquilli, nessuno di noi rimarrà mai senza identità e senza lingua. Sapremo sempre chi siamo e cosa parliamo. Come rimaniamo sempre noi stessi passando da un’età all’altra, perché mai dovremmo perdere la nostra identità se nel corso della nostra esistenza imbarchiamo differenze, impariamo altre lingue, andiamo a vivere altrove? Sarà allora, in questo tempo imminente, che Trieste ritroverà la sua vera anima. Basta con le lingue protette, le lingue riservate, le lingue di maggioranza e quelle di minoranza, che fanno sempre pensare a un minorato, un mutilato. Come se a una lingua potesse mancare qualcosa per essere pienamente lingua. Io che non sono proprio un liberista qui invece mi affiderei alla libera concorrenza delle lingue. Che ognuna vada per la sua strada, che ognuna apra le sue scuole e che tutti siano liberi di studiare quella che vogliono. Accadrà come è sempre stato che sarà la lingua più vivace, quella più innovativa, più inclusiva, più creativa ad avere la maggiore diffusione. Come accadde all’italiano che si ritrovò lingua di prestigio in Europa quando l’Italia ancora non esisteva e va notato che da quando esiste lo Stato nazionale l’italiano non ha fatto altro che ritirarsi. Quando l’Italia conquistò le terre slovene alla fine della Prima guerra mondiale, i nuovi sudditi sloveni del regno erano più alfabetizzati dei loro compatrioti italiani. Che cultura e istruzione riprendano dunque il sopravvento e che siano loro a disegnare l’influenza di una lingua. Senza che anche al dialetto triestino non manchino le sue opportunità. I dialetti sono per l’italiano un nutrimento sotterraneo che impedisce alla nostra lingua di fossilizzarsi. Il francese che tutto codifica, diventa vecchio e da un secolo all’altro incomprensibile. Noi invece riusciamo a capire oggi l’italiano scritto anche cinque secoli fa. E il dialetto triestino fra gli altri, lingua del cuore, poetica e dissacrante come tutti i dialetti, lingua di casa ma anche lingua di un mondo, lingua franca per tanti “taliàn” venuti a vivere a Trieste. “Mi no capisso, xe trenta ani che sto a Trieste e i me ciàma ancora cabibbo”, diceva il mio barbiere di San Giacomo con perfetto accento catanese. Triestino lingua della gente, in fondo lingua di libertà che non è mai appartenuta a uno Stato, quella con cui si può serenamente cantare “Teresuta” che nei suoi contenuti travalica ogni frontiera e porta alle sue più elevate espressioni figure universali come l’ubriacone, anzi con lungimirante parità di genere, la coppia di ubriaconi. — © RIPRODUZIONE RISERVATA