Il partito dei NI-Vax
All'inizio, probabilmente, sognavano il vaccino come tutti, facendo i conti per capire quando sarebbe arrivato il loro turno, e magari hanno passato la «notte prima della prenotazione» a cercare di accedere in anticipo al portale per ottenere una data non troppo lontana.
Ma il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli, nell'imponderabile percentuale di errore che sta dentro alle umane cose e - seppur minima - ha il potere di innescare la tempesta perfetta. Così, un po' a causa di una percentuale, sia pure estremamente bassa di gravi effetti collaterali e soprattutto dell'ondivaga (per dirla con un eufemismo) strategia di comunicazione istituzionale sui vaccini, migliaia di sì-vax si sono trasformati in ni-vax, boh-vax, forse-vax.
Ognuno con i suoi perché. Quelli che aspettano l'autunno per vedere se il virus sarà ancora in giro; quelli che hanno fatto la prima dose e, solo se il test degli anticorpi dirà che ne hanno pochi, faranno il richiamo; quelli che ci pensano su, e decideranno il da farsi dopo aver visto se amici, parenti e colleghi sono usciti indenni dagli effetti indesiderati.
Un esercito di indecisi il cui numero ha costretto il premier Mario Draghi a metterci la faccia e il braccio: «Farò io stesso la vaccinazione eterologa, con un siero diverso dal primo (cioè Astrazeneca e poi Pfizer, ndr)» ha annunciato. E ha poi convocato una conferenza stampa per rassicurare gli italiani.
Ma quanti sono gli incerti del vaccino, aggrappati a timori e giustificazioni? Secondo Iqvia, uno dei maggiori provider mondiali di dati sanitari, a fronte di un 50 per cento di convinti e un 17 per cento di persone che probabilmente diranno no, gli indecisi sono almeno il 25 per cento degli italiani (uno su quattro dunque), affiancati da un 8 per cento di irriducibili no-vax.
Troppi, secondo Carlo La Vecchia, epidemiologo all'Università Statale di Milano: «I numeri nazionali ci dicono che nella fascia degli over 60, la più a rischio per malattia grave da Covid e ospedalizzazione, ci sono ancora circa 2,6 milioni di individui senza nemmeno la prima dose, anche se con grandi differenze tra le varie regioni. Tra questi non sappiamo quanti siano i convintamente no-vax, quelli che tergiversano o che magari non sono ancora riusciti ad accedere alla vaccinazione pur volendola fare. I trend però ci mostrano che anche nella fascia 50-59 la campagna vaccinale sta rallentando. Io comunque resto ottimista, confido nel fatto che sia un fenomeno passeggero, dovuto magari alla "rimodulazione" delle dosi dovute alle note vicende legate al vaccino Vaxzevria».
Parlando fuori dai numeri, e quindi con le persone, la situazione appare però più complicata, con un crollo di circa 500 mila somministrazioni nei giorni immediatamente dopo la conferenza stampa del ministro della Salute che rendeva obbligatoria la vaccinazione eterologa. «Ero tra gli entusiasti del vaccino» afferma Mario, 53 anni, imprenditore siciliano. «Ho sempre lavorato in presenza e non vedevo l'ora di immunizzarmi. Mi sono prenotato per uno degli Open day che la Regione Sicilia (dove un anziano su tre rifugge dal vaccino, ndr) ha organizzato a maggio e ho ricevuto AstraZeneca. Ora però sono molto indeciso se fare la seconda dose, con mix o meno, c'è troppa confusione».
Fenomeno geograficamente trasversale, più accentuato fra chi - ancor prima dei fatti legati al vaccino di Oxford - non è che avesse particolare smania di farsi pungere: «Per ora sto attento, faccio una vita tranquilla, non ho fretta di vaccinarmi» spiega Franco, veronese di 58 anni, impiegato di banca. «Magari dopo l'estate, prenoterò in farmacia il monodose. Così forse convinco anche mia moglie, che invece è contraria».
E poi, ancora, Anna e Claudia, 67 e 47 anni, rispettivamente di Monza e Milano: la prima, pensionata, guarita dal Covid lo scorso maggio, ha diligentemente fatto la prima dose ma ha deciso di sottoporsi all'esame degli anticorpi prima del richiamo e di non procedere se ritiene di averne abbastanza, per paura degli effetti collaterali; la seconda, insicura già prima, lo è ancor di più oggi «perché ogni giorno ne dicono una diversa e francamente non mi fido a farmi inoculare un vaccino di cui si sa poco, a fronte di un'utilità incerta... conosco tanta gente che per tre giorni dopo l'iniezione è stata malissimo. Al momento non mi prenoto, poi vedrò».
Peccato che nel «poi vedrò» si nascondano rischi non da poco, non solo di contrarre la malattia (l'età media dei ricoverati scende man mano che i più anziani vengono protetti) ma anche di «sabotare» il raggiungimento dell'immunità di comunità, che ci permetterebbe di affrontare l'autunno senza un ennesimo lockdown.
Infine c'è un effetto collaterale sociale, per così dire, della non-vaccinazione: i 44 milioni (a oggi) di italiani che hanno fatto almeno una dose iniziano a prendere le distanze da coloro che «preferirei di no». A colpevolizzarli. A escluderli. Nella retorica della pandemia vista come una guerra, chi sfugge al vaccino è come il disertore che lascia gli altri a combattere da soli; e torna a emergenza conclusa senza nemmeno essersi accollato il rischio - sia pure minimo - del vaccino.
«È esattamente così» spiega Federico Neresini, ordinario di Sociologia all'Università di Padova. «Abbiamo affrontato la pandemia adottando le similitudini della battaglia: gli eroi, il nemico, i morti sul campo. L'immagine del disertore si iscrive perfettamente in questo scenario: del resto la metafora della guerra, in medicina, è un classico. Implica la creazione di fronti opposti, i sì-vax e i no-vax: si romperanno amicizie, si spaccheranno i nuclei familiari allargati e ci sarà chi non vorrà più frequentare vecchi amici che hanno deciso di non combattere "dalla parte dei buoni". Tutto questo è molto umano, e anche molto interessante dal punto di vista sociologico».
Ma non c'è proprio nulla che si possa fare per indurre a vaccinarsi chi ondeggia tra timori e fiducia? E soprattutto, chi infrange il patto sociale con un'idea di salute fortemente individualista? Se esiste un metodo, non è di certo l'aggressività: «Chi ha una posizione contraria al vaccino oggi si sente stigmatizzato, e questo porta ad assumere posizioni estreme» afferma Barbara Morsello, dottore di ricerca nella stessa facoltà di Neresini. «Lo stigma spinge le persone fuori dalle proprie cerchie amicali e parentali, spingendole a ricostruire un senso di comunità con gruppi di "simili". Spinge alla radicalizzazione, la stessa dinamica - consentitemi l'esempio - di rinforzo negativo che porta al terrorismo. Chi si sente marginalizzato non la cede: l'unica strada è il dialogo».
In caso la pandemia non ci avesse ancora portato ai livelli estremi di sopportazione, tocca uno sforzo in più: invitare a cena la zia indecisa, l'amico no-vax o il cugino complottista, e sentire le loro ragioni. Convicerli se si riesce. In caso contrario, rispettarne le scelte, o rinunciare a frequentarli fino a tempi migliori.