«Volevo uccidermi, ma me ne sarei andata da colpevole». Morti in ospedale a Piombino, parla l'infermiera assolta
Fausta Bonino ripercorre un incubo andato avanti per oltre sei anni: condanne, processi, il carcere e la solitudine. Poi la sentenza di assoluzione: «Ora voglio solo stare più tempo possibile con i miei figli»
PIOMBINO. «Quando ero in carcere ho anche pensato di farla finita. Ma se lo avessi fatto, sarei rimasta colpevole per sempre. Ho deciso di resistere, l’ho fatto per la mia famiglia. E finalmente ho avuto ragione». Fausta Bonino la mattina di martedì 25 gennaio, invece, si è svegliata nella sua casa di Piombino. Libera davvero, per la prima volta dopo quasi sei anni, dal peso delle accuse di aver ucciso pazienti con l’eparina in ospedale. Innocente. La parola che l’altra notte – dice – le ha permesso (finalmente) di dormire almeno un po’. Nel giro di poche ore, Fausta Bonino è passata dal terrore per la sentenza della corte d’assise di appello di Firenze alla sensazione di gioia per essere uscita da un incubo. «Assolta perché non ha commesso il fatto», hanno sentenziato i giudici. Così l’infermiera dell’ospedale di Piombino, già condannata in primo grado all’ergastolo per la morte di quattro pazienti del reparto di anestesia e rianimazione e accusata in appello per la morte di nove pazienti, è tornata a respirare. Per i giudici non è un’assassina. Quei morti, dunque, non sono sulla coscienza della piombinese di 61 anni, originaria di Savona ma residente in Toscana. È scoppiata a piangere in aula, al momento della lettura della sentenza. Ha gioito, ma poi è tornata nella sua casa di Piombino, con la famiglia. «Ho bisogno di metabolizzare tutto questo», dice a Il Tirreno, la mattina dopo la sentenza di appello, arrivata lunedì 24 gennaio.
Signora Bonino, come si sente dopo l’assoluzione?
«Le dico che sono riuscita a dormire un po’. Non avevo dormito la notte precedente per la paura della sentenza. Ma mi sono svegliata lo stesso ammaccata, forse ho preso un po’ freddo ieri (lunedì 24 gennaio, nda)».
Cosa ha provato nell’aula della corte d’appello di Firenze?
«Non ci credo ancora, non riesco a elaborare quanto mi è capitato. Quando il giudice ha letto la sentenza ero così agitata che non ho neanche sentito la parola “assolta”. Credevo che stesse leggendo la sentenza vecchia, insomma non avevo capito. Mi sono seduta e mi sono messa a piangere. Poi si è girato il mio avvocato e mi ha detto: “Fausta! Ma non è contenta?”. Ero impietrita, non so. E poi dopo quasi sei anni è difficile».
Il suo avvocato ha detto che lei ha vissuto sei anni dentro a una centrifuga. Condivide questa descrizione del suo stato d’animo?
«Sì. Mi sono sentita in un limbo per tutto questo tempo. Mi sono messa da sola agli arresti domiciliari. Non sono quasi più uscita di casa. Non conosco più Piombino, non conosco più nulla. Sono stata molto all’Elba, perché abbiamo una casa in campagna. Non avevo più voglia di nulla».
Perché?
«Perché non credevo più nella giustizia. Dicevo: ho sempre lavorato, ho fatto il mio dovere. Con il dottor Tognarini (ex cardiologo dell’ospedale di Piombino, nda) ho messo pacemaker in ospedale per quasi vent’anni, ho lavorato bene con i pazienti. Spesso me ne occupavo da sola, li sistemavo, li portavo in sala, li seguivo prima e dopo le operazioni. Ho sempre e solo salvato vite, sono stata un anno in quel reparto (anestesia e rianimazione, nda) e mi hanno accusata di averli ammazzati tutti o quasi. Una roba così per l’infermiera che ero non la potevo accettare. Pensare che Andrea (il figlio maggiore di Fausta Bonino, nda) ha deciso di fare il medico proprio per l’amore che io mettevo nel mio lavoro».
Cosa le ha dato la forza di andare avanti in questo periodo così difficile?
«Quando venne l’avvocata (all’epoca era Cesarina Barghini, nda) mentre ero in prigione le dissi: “Io la faccio finita”. L’avvocata mi rispose: “Lo sai che se ti ammazzi non ci sarà processo e tu sarai colpevole e basta?”. Allora ho pensato alla mia famiglia, ai miei figli Andrea e Lorenzo e a mio marito Renato. Ho pensato alla loro disperazione quando mi sono venuti a trovare. A quel punto mi sono chiesta: “Devo dare loro un altro dispiacere?”. Ho resistito per loro. Per la mia famiglia».
Qual è stato il momento più buio?
«L’arresto all’aeroporto, i giorni in carcere al Don Bosco di Pisa. E il giorno della sentenza di primo grado a Livorno. Mai mi sarei aspettata un verdetto del genere, la mia avvocata di prima diceva che assolutamente non c’erano indizi tali per farmi condannare. Ero andata tranquilla alla sentenza di primo grado. Cosa che non è accaduta lunedì (24 gennaio) a Firenze».
Perché era così pessimista?
«Perché non avevo più fiducia nella giustizia, dopo la sentenza di primo grado e dopo che, secondo me, sono state compiute indagini a senso unico. Pensavo che finisse male per me. Tante cose non si possono scrivere, quando sarà tutto finito mi toglierò qualche dente. Resta il fatto, inoltre, che tutte le persone alle quali sono morti i cari in ospedale non hanno avuto giustizia».
Cosa le è pesato di più durante il processo?
«Ci sono state tante cose contro di me. Eppure mentre tu sei alle prese con questi procedimenti non puoi fare nulla, non potevo dire al mondo che quello che veniva detto contro di me non era vero. Devi solo difenderti».
Questa storia come ha cambiato la sua famiglia?
«L’ha cambiata dal punto di vista economico. Tantissimo. Mi sono fatta aiutare e per fortuna mi hanno aiutato. E per fortuna mio figlio Andrea lavora, altrimenti non ce l’avremmo fatta a sostenere tutte le spese».
E dal punto di vista degli affetti?
«Ci siamo uniti ancora di più di fronte alle difficoltà. Lorenzo (il figlio minore di Fausta Bonino, nda) vive a Parigi ma lo sento tutti i giorni e d’estate viene a trovarmi. Purtroppo non è potuto venire a Natale per il Covid. Andrea mi è sempre stato vicino: sono due ragazzi straordinari».
Prova rancore per quello che le è accaduto?
«No. No, perché questa situazione mi ha cambiata. Per le poche persone che mi hanno infangato provo pena, ma non provo rancore. Verso nessuno».
Ha mai incontrato i familiari dei pazienti deceduti in ospedale?
«No, le uniche persone che ho incontrato sono i Peccianti, presenti a tutte le udienze. Coi familiari dei pazienti non ho avuto contatti in questi anni: la prima cosa che ho pensato quando sono uscita dall’aula è: “Chissà queste persone come faranno ad avere giustizia?”. Io non lo so».
Si è fatta un’idea di cosa sia accaduto all’interno del reparto? Chi possa aver ucciso quelle persone?
«Non so. Non saprei cosa rispondere. Quello che sapevo l’ho detto agli inquirenti. Spero solo che emerga la verità».
Teme che il suo incubo possa riaprirsi con il ricorso in Cassazione?
«Sinceramente non lo so, questo lo dovrebbe chiedere al mio avvocato. So che bisogna aspettare le motivazioni della sentenza. L’incubo? Spero di non tornare più a viverlo, ma se si riaprisse sarei pronta ad affrontarlo».
Si apre una fase nuova della sua vita. Cosa farà ora Fausta Bonino?
«Non ci ho ancora pensato. Intanto voglio solo programmare di andare un po’ dai miei figli. A Firenze da Andrea, una settimana a Parigi da Lorenzo. Voglio stare con loro. È la cosa più importante».
© RIPRODUZIONE RISERVATA